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Gianni Bergamaschi

La "formazione del suono" nella chitarra jazz               

 

Sono qui che scrivo, e mi fanno compagnia le note di No Matter What, una tra le più levigate composizioni inscritte in I Can See Your House From Here (Blue Note, 1994), pregevole CD che vede riuniti quattro degnissimi esemplari della più squisita crème jazzistica di questi ultimissimi decenni, John Scofield, Pat Metheny, Steve Swallow e Bill Stewart, nell’atto di offrirci una sequenza di performance nel complesso tutte di ottima qualità.

Il brano in questione, nella sua grazia serena, tuttavia contrassegnata al momento giusto da elevati sprazzi di lirismo o concentrata tensione, dimostra con la più assoluta evidenza quanta e quale cura si possa accordare al processo di produzione del suono, dall’uso del plettro (di cui lo stesso Steve, com’è noto, si serve in modo regolare e personalissimo, pizzicando le corde di un acoustic bass guitar o quelle del suo singolare basso elettrico) (1), alla microfonazione, alla regolazione della tastiera, alla scelta delle corde, alla tecnica della mano sinistra.

E intuisco ancora una volta come non occorra davvero essere dei tecnici laureati per rendersi conto del modo in cui un certo tipo di "suono", ovvero un determinato genere di approccio fisico (mi verrebbe voglia di dire "amplesso"), oltre che concettuale, al proprio strumento, possa molto spesso risultare inconfondibilmente proprio di quel preciso chitarrista, tanto da renderlo immediatamente riconoscibile tra mille.

Sulla questione dobbiamo a J.E. Berendt una serie di annotazioni tanto affascinanti quanto concrete che, nella loro distillata essenzialità, potremmo all’occorrenza assumere a sicuro criterio di individuazione e classificazione (semmai fosse possibile classificare l’inclassable) di stili chitarristici o chitarristi:

 

"Ciò che distingue in modo particolare il jazz dalla musica europea è la formazione del suono."

Secondo i "principi dell’estetica tradizionale" uno strumento "deve avere un suono ‘bello’."

"Per un musicista di jazz invece non è affatto importante adeguarsi a un’immagine sonora generalmente valida. Un musicista jazz ha un suo suono. Questo suono è determinato meno da criteri estetici che da criteri espressivi ed emozionali."

"Un musicista di jazz, quando per esempio suona un brano di musica concertistica europea, può trasformare automaticamente quel brano in ‘jazz’, anche quando lo suona seguendo quasi alla lettera uno spartito, semplicemente perché lo suona con la formazione del suono e il fraseggio del jazz."

"La formazione del suono nel jazz significa – per fare alcuni esempi – il lento ed espressivo vibrato del sassofono soprano di Sidney Bechet, il suono voluminoso ed erotico del sassofono tenore di Coleman Hawkins, la cornetta ‘terrosa’ di King Oliver, i ‘jungle-sounds’ di Bubber Miley, l’elegante chiarezza del clarinetto di Benny Goodman oppure la metallica e scintillante freddezza di Buddy De Franco, la mestizia o lo smarrimento di Miles Davis o la vittoriosità di Louis Armstrong, la sonorità lirica di Lester Young, il fascio sonoro commovente e strozzato di Roy Eldridge e il chiaro splendore di Dizzy Gillespie."

"Nelle vecchie forme di musica jazz la formazione del suono è più marcata rispetto a quella nuova." (2)

 

Horn conception VS plectrum sound

 

È la prima grande coppia oppositiva e dicotomica che mi viene in mente: alternativa paradigmatica un tantino rigida e grossolana, dal momento che ignora semplicisticamente tutti quegli aspetti intermedi, quelle strategie miste, quelle soluzioni di equilibrata sintesi tra i due poli che oggettivamente fanno della chitarra un mezzo espressivo estremamente ricco e disponibile alle soluzioni pragmatiche più svariate e "personalizzate" (in questo distinguendosi ampiamente da molti altri strumenti anche di grande tradizione e prestigio come, ad esempio, il pianoforte).

Wess Montgomery e Django Reinhardt ne sono, rispettivamente, gli emblematici padri fondatori.

Il primo decisamente non gradiva il suono del plettro al punto che, persino dopo lunghi mesi di tentativi, non gli riusciva di utilizzarlo in un modo che a lui sembrasse accettabile.

Così, il grande chitarrista di Indianapolis stabilì che avrebbe proseguito diversamente:

 

"Mi piaceva la sonorità del pollice, ma la tecnica era migliore con il plettro e non potevo avere entrambe le cose. Dopo una trentina di giorni che facevo pratica con il plettro decisi di inserire la spina dell’amplificatore e vedere cosa succedeva. Il suono era troppo forte persino per i miei vicini, così […] cominciai a percuotere le corde con il polpastrello. Il suono era molto più tenue. A questa tecnica unii l’espediente di suonare la linea melodica in due differenti registri; questo rese il suono ancor più morbido." (3)

 

Com’è noto, Wess Montgomery è universalmente riconosciuto come il grande patriarca di quella horn conception che tra gli anni ’40 e ’50 sempre più andò avvicinando il fraseggio chitarristico a quello degli strumenti a fiato, e dunque di quell’ horn sound attivamente perseguito o con tutta naturalezza assimilato da parecchi tra i più autorevoli "eroi" degli ultimi tre decenni di chitarra jazz, tanto visibilmente attratti dalle potenzialità armonico-melodiche e timbriche del proprio strumento, quanto serenamente indifferenti alla sua natura percussiva:

 

"Se […] si ascoltano Charlie Christian o Django Reinhardt si può sentire il colpo di plettro sulla corda. A me piace più ascoltare la nota che non il suono dell’attacco. Per questo sono portato stilisticamente verso chi suona con la horn conception." (4)

 

Quanto a Django, invece:

 

"[…] quello che mancava alla mano sinistra era compensato tanto dalla potenza e dalla dimensione delle due dita sane, quanto da un uso del plettro […] straordinario. E chi conosce lo strumento sa benissimo che la tecnica strumentale è frutto del rapporto fra entrambe le mani. La sua pennata, alternata o meno, è semplicemente perfetta e consente qualsiasi tipo di salto di corda alla mano sinistra, oltre a creare una varietà di colori stupefacente e a utilizzare in maniera impareggiabile l’effetto trillo, tipico della tecnica mandolinistica, probabilmente acquisito da Django nei suoi anni di apprendistato con il banjo." (5)

 

Ma, come si diceva poco sopra, il paradigma horn conception VS plectrum sound potrebbe troppo spesso non funzionare se applicato meccanicamente, come certamente riduttivo e irriverente potrebbe apparire (e lo è) pretendere, ad esempio, di inquadrare o valutare la grande arte dello stesso Django secondo un’ottica esclusivamente plectrum. Si riascoltino anche soltanto poche battute di quel superbo quadretto impressionistico che è Nuages per rendersi conto di come davvero non basti il solo binomio "plettro e velocità" a giustificare quella sottile e toccante vena di poesia che può nascere unicamente da una sorta di empatia, ovvero da una passione che magicamente avvince il musicista al proprio strumento (in particolare, ad alcune parti del suo corpo, e non si sta alludendo alla consueta e francamente insipida metafora che vorrebbe nella silouette stessa della chitarra una qualche simulazione del corpo femminile: di ben altro si tratta) consentendogli di declinarvi le più rare e ricercate sonorità.

Potrebbero, invece, essere letti assumendo unicamente tale filtro molti dei chitarristi più recentemente ispiratisi allo stile del "musico gitano" (Christian Escoudé, Bireli Lagrene e altri), evidentemente poco attratti dalle opportunità consentite da una più libera e partecipe ricerca timbrico-espressiva poiché affannosamente presi da questioni relative alla pura velocità o ad un fraseggio che finisce poi per risultare irrimediabilmente manierista e quasi unicamente boppistico.

Fortunatamente, non è così per tutti, e basti pensare alle svariate prove di concreto equilibrio offerte da un Philip Catherine, jazzista di inconfondibile vena a cui vanno sicuramente riconosciute, accanto al sapiente utilizzo del plettro, una concezione melodico-armonica personalissima, dignitosamente autonoma tanto dal modello reinhardtiano (che tuttavia Catherine non può, per più di una ragione, ignorare), quanto dalla vieta riproduzione dei più triti pattern americani, e un’intima, raffinata gestione del suono (secondo un gusto tutto "europeo", per quanto gipsy: è così che alcuni chitarristi d’oltreoceano definiscono i nostri, nessuno escluso) proprio al livello della sua "formazione", cioè delle sue modalità di produzione.

 

"Corpo a corpo"

 

Si diceva di un rapporto "fisico" tra musicista e strumento, ma va anche osservato che per gli addetti ai lavori (cioè, per chi suona) questa non è che una storia vecchia. Eppure, quante volte francamente ci siamo imbattuti in pagine attente a leggere una qualsiasi performance musicale anche sotto tale angolazione?

A dispetto di tutto, sembra oramai oggettivamente necessario (e senz’altro produttivo) impostare un discorso per molti aspetti inedito sulla musica e sul vivo istante dell’esecuzione/improvvisazione (visto che si parla di jazz) a partire da una solida considerazione corporeo-empatico-materica dei sistemi di produzione del suono, almeno in tutte le loro più significative determinazioni.

In Rasch, breve ma intenso saggio sulle Kreisleriana di Schumann, scrive Roland Barthes:

 

"nella musica, campo di significanza e non sistema di segni, il referente non può essere dimenticato: il referente […] è il corpo. Il corpo passa nella musica senz’altro collegamento che il significante […] questa trasgressione fa della musica una follia." (6)

 

E ancora il semiologo francese, in un altro luogo:

 

"[…] la Musica è una qualità di linguaggio che il linguaggio non dice e nel non-detto vengono a prendere posto tutti i valori dell’Immaginario." (7)

 

Il tipo di presa sull’oggetto sonoro-musicale a cui Barthes fa riferimento è decisamente di natura pre-semiotica: nel "corpo in stato di musica" si realizza un rapporto empatico-emotivo che conduce di fatto ad una sorta di "ermeneutica materialista" in cui il microstrutturale appare ineffabile, atopico, senza luogo, "differente", "intrattabile", opponendosi a tutti i discorsi (paroles) e vanificando le trappole del "dialogo". Proprio questa "insituazione" costituisce il suo essere "materialista"(8), e cioè "materico", intensamente esperienziale, un po’ come accade con l’indefinibile "sapore del thè" ("quando cercate di descrivere la vostra esperienza, non siete già più nell’esperienza. Nell’esperienza […] non esiste distinzione tra soggetto e oggetto; non esiste valutazione, e neppure discriminazione") (9), considerata la grande simpatia di Roland Barthes per il buddhismo zen.

Eppure:

 

"si può tentare di catturarlo progressivamente alla cultura, come fa lo stesso Barthes quando […] riconosce e cerca di descrivere le caratteristiche implicate dalla fonetica musicale di Charles Panzera e parla di un’estetica della pronuncia distinta da (e contrapposta a) un’estetica dell’articolazione già codificata"(10).

 

Egli scrive, a tale riguardo:

 

"La fonetica musicale di Panzera, mi sembra, comporta queste caratteristiche: 1) la purezza delle vocali, sensibile specialmente nella vocale francese per eccellenza, la u, vocale anteriore, si potrebbe quasi dire esterna (si direbbe che essa chiami l’ ‘altro’ a entrare nella mia voce) […]; la bellezza franca e fragile della a, la vocale più difficile da cantare; 3) la granitura delle nasali un po’ aspra, e come piccante; 4) la r, arrotata, certamente, ma niente affatto al modo un po’ grasso del parlar contadino, poiché è così puro, così breve come se non volesse accentuare altro che l’idea, e il cui ruolo – simbolico – è di virilizzare la dolcezza, senza abbandonarla; 5) e, per finire, la patina di certe consonanti in certi momenti: consonanti che, se così si può dire, più che cadere ‘atterrano’, sono piuttosto avviate che marcate." (11)

 

Superfluo sottolineare quanto tali annotazioni siano nello spirito affini a quelle più sopra riportate dal volume di Berendt.

 

Nulla di male, dunque, ad ascoltare con il corpo, dal momento che tale strategia "porta a immedesimarsi con tutti i cinque e più sensi e i muscoli e i nervi in quel corpo sonoro che cova, fermenta, pullula, vibra, si muove, si erge, si slancia." (12)

 

Sembra persino tangibile l’esistenza una misteriosa relazione tra l’inconfondibile sound di un musicista e le voci care alla sua anima più segreta:

 

"Mentre al telefono stavo parlando con Lois Metheny [madre di Pat] rimasi colpito dalla splendida voce, fu molto strano, in quel momento mi sembrò di sentire il suono della chitarra di Pat…" (13)

 

Uno sguardo a "destra"

 

"Il plettro va saldamente stretto tra il pollice e l’ indice della mano destra", prescrivono all’unanimità i manuali di chitarra in circolazione, senza mai null’altro aggiungere.

Così, alla fine, ciascuno tenterà di risolvere i rimanenti "dettagli" della questione a modo suo, ovvero senza più alcuna autorevole guida o incentivo ad una riflessione metacognitiva, bensì semplicemente seguendo il proprio naturale istinto.

Più che tra quali dita tenere il plettro, informazione per cui non c’era davvero bisogno di acquistare un manuale, diventerà assolutamente fondamentale decidere il modo in cui esso dovrà essere tenuto e, particolare per nulla irrilevante nell’ottica del presente studio, tutto questo verrà fortemente condizionato dal tipo di rapporto (inevitabilmente irriducibile da un esecutore all’altro) con lo strumento, con le corde, con la tastiera, e dunque con il suono.

Tanto per iniziare, a dispetto di quel che solitamente si crede, il plettro può essere gestito in modo tale che se ne senta sfacciatamente la presenza o non la si avverta affatto.

La stessa horn conception non si fonda infatti sulla soppressione del plettro in sé (Wess costituisce in tal senso un vero caso limite), bensì sulla particolare maniera di utilizzarlo, ovvero sul rapporto strutturale (dove tout se tient) che la mano destra intrattiene con le corde e, attraverso queste, con la mano sinistra.

È noto come il plettro possa essere impugnato nelle maniere più svariate (con delicatezza, con decisione, con forza; all’altezza della più ampia regione superiore, piuttosto al centro, o in prossimità dell’angolo inferiore, quello più acuto, che contatterà le corde; disposto verticalmente e parallelo ad esse, per poterle pizzicare con l’intera sua superficie, o lievemente chinato in avanti, in direzione della tavola dello strumento, magari fatto ruotare su se stesso di circa 10-20 gradi in senso orario, in modo che possa incontrare le corde attraverso l’impatto deciso del bordo; capovolto, affinché il contatto con quelle possa avvenire in totale souplesse su uno dei due angoli maggiormente arrotondati; energicamente affondato tra una corda e l’altra oppure a "bacìo", così da sfiorare appena il tutto, e via discorrendo) e ciascuna di esse è destinata a produrre esiti "fonetici" assai diversi e ben identificabili.

Personalmente, trovo che persino un plettro thin (è questo la misura che preferisco da sempre), ben rodato da almeno un paio di giorni di corretto utilizzo (cioè non strimpellandovi malamente delle canzonette qualsiasi, cosa che ne compromette irrimediabilmente il "filo"), impugnato con una certa fermezza, ma senza rigidità, più o meno in prossimità del suo angolo inferiore, fatto ruotare di una decina di gradi in senso orario e impercettibilmente inclinato nel senso della tavola, incontrando con dolcezza le corde mediante mezzo spigolo di uno dei propri margini laterali (quello interno, eseguendo la pennata in giù, quello esterno, in fase di contropennata), possa sortirne una sonorità soffice, ma decisa e generosa, per di più quasi del tutto depurata da quell’attacco che i cultori della horn conception tanto detestano.

Inoltre, usato in tal modo, esso può consentire, a differenza dei plettri dal calibro più massiccio (medium, heavy), di non impallare, con l’eccessiva pastosità delle frequenze gravi (per quanto vellutate), il "colore" discreto di quelle medie e la melodica trasparenza degli armonici più segreti e sottili.

Infine, tutt’altro che insignificante può essere (come nel mio caso) il ruolo giocato tanto dal pollice quanto dall’indice della mano destra. Una collocazione lievemente avanzata da parte di entrambi può infatti consentire di sfiorare con i polpastrelli la corda di volta in volta pizzicata, smorzandone il suono nella misura desiderata e ottenendone a piacere un effetto di leggero "slap" entro cui si possono facilmente intravedere parvenze di armonici latenti. Questo permette di caratterizzare in modo estremamente soggettivo il proprio stile, conferendo ad ogni nota così prodotta una complessa e piuttosto "ineffabile" grana timbrica.

Peccato che la cosa non sia possibile anche durante l’esecuzione di fraseggi fluidi e veloci. In questo caso, infatti, le dita che stringono la penna debbono necessariamente distanziarsi dalle corde quanto basta per lasciarle vibrare in totale libertà.

Ovviamente, la scelta del plettro andrà effettuata, fatte salve le precedenti considerazioni, anche in relazione al tipo di corde (lisce o ruvide) montate sul proprio strumento e al loro calibro. Quanto a me, utilizzo regolarmente un thin su corde zigrinate 10/46 o flat 11/50. Di entrambi i tipi non è possibile, per ovvie ragioni, citare le case produttrici. Riguardo ai fabbricanti di plettri per chitarra, invece, si può serenamente affermare che spesso la qualità dei materiali da loro recentemente utilizzati non è certo quella di venti o trent’anni fa, e le conseguenze sul piano della produzione del suono si fanno notevolmente sentire.

I chitarristi più sensibili a questo aspetto del problema naturalmente se ne disperano.

 

Cantabilità

 

È un altro qualificante indicatore dei più recenti e disinibiti approcci all’aspetto melodico della musica, tanto in fase di composizione, quanto e soprattutto sotto il profilo dell’improvvisazione.

Ad esprimere con particolare sollecitudine questo fresco punto di vista sono gli stessi musicisti.

Attorno agli anni ’60-‘70, la facile "orecchiabilità" di un determinato motivo musicale poteva di per sé costituire fondamentale elemento di giustizia sommaria nei suoi riguardi: su tale semplice base esso veniva inesorabilmente bollato come prodotto "commerciale", degno solo dei più grossolani palati. In tal modo questi ultimi potevano godersi indisturbati una discreta quantità di leccornie musicali di indiscutibile bellezza, rigorosamente proibite ai degustatori più colti e schifiltosi.

Ricordo, essendo io un musicista (e quindi, in un certo senso, un "esperto"), di avere spesso avuto serie difficoltà nel dissociarmi da questi ultimi. Alla fine, però, la voglia di godermi quelle meraviglie ha prevalso, sottraendomi ad una condizione di patetico e sterile snobismo.

Oggi mi capita di leggere:

 

"Quando Pat suona è come se io stessi cantando" (14),

 

oppure:

 

"I miei chitarristi preferiti sono Wess Montgomery, Jimi Hendrix; Jim Hall, Carlos Santana e George Benson, perché il loro suono mi ricorda la voce umana. Quando compongo musica, canto […]. Il mio punto di vista quando scrivo è sempre quello del cantante o di chi è ai fiati." (15)

 

Anni fa, molto prima che realizzassi il mio CD Sunny, inviai una cassetta di composizioni originali (approssimativamente inquadrabili tra il jazz e la new-age) ad uno tra i più autorevoli chitarristi italiani. Mi sarebbe piaciuto poterne ricevere degli utili consigli. Con incredibile anticipo sul previsto egli mi telefonò e, restando cortesemente alla cornetta per un tempo davvero incommensurabile, dopo avermi colmato di complimenti, mi incitò a proseguire in quel senso, confessandomi che, per sua sfortuna, troppo di rado gli accadeva di rilevare un così bel gusto melodico persino in parecchi tra i suoi più famosi colleghi jazzisti.

Ovviamente, tutto questo mi rese maggiormente consapevole del fatto che quella facilità sulla cui base (soprattutto attorno al Sessantotto) molta musica veniva stroncata come banale, "commerciale", "non alternativa", conformista, non progressiva, "venduta", non rivoluzionaria, non creativa, "serva", "borghese" o "piccolo borghese" e via discorrendo non va confusa con la ben diversa cantabilità tanto perseguita e valorizzata dai più notevoli maestri del nostro tempo.

Il segreto sta soprattutto nel loro costante riferimento alla voce umana, nella misura in cui sottenderne il misterioso potere può orientare i più efficaci percorsi di ricerca sul piano delle strategie di manipolazione strumentale:

 

"L’espressività, il timbro, la scelta del colore giusto per ogni nota, che nel jazz era particolarmente pronunciata nell’epoca del New Orleans, danno al suo [di Jim Hall] fraseggio una dimensione che Berendt ha definito ‘vocale’, cogliendo anche il respiro di una musica essenziale […]"(16);

 

"Nella costruzione di un tema, come nella produzione di un solo, ricerco la ‘cantabilità’, anche nel senso che, sotto le note, dovrebbero potersi avvertire delle ‘parole’ (fraseggio come discorso segreto).

Dunque: ‘parlabilità’ di un tema o di un solo, in quanto intimo dialogo tra musicista e strumento, tra musicista e ascoltatore.

Ciò consente di sfuggire con naturalezza tanto ai vuoti pattern, quanto, e soprattutto, a quei fraseggi virtuosi ed insignificanti, abbaglianti ma indifferenti di cui è ricolmo il vocabolario dei ‘dimostratori’ […]." (17)

 

Wess Montgomery, John Scofield e altri hanno più volte sottolineato, durante le svariate interviste da loro rilasciate, come l’improvvisazione debba farsi "imitazione del canto", mentre Jim Hall suggerisce, nel corso di un seminario da lui tenuto a Bergamo nel 1993, di "articolare le note come le parole di un discorso."

 

è chiaro che a tutto ciò debbono sinergicamente concorrere più fattori: la soluzione del problema dell’attacco, il tipo di breath, l’accurata scelta dello strumento, la natura e qualità delle corde montate, il tipo di tastiera e la sua messa a punto, l’uso della mano sinistra e, non ultima, la particolare postura assunta da ciascun musicista durante le proprie performance. Ed è come se un’unica istanza dovesse armonizzarli al meglio.

Nei paragrafi seguenti mi limiterò a lanciare, su tutti questi aspetti, appena qualche rapida suggestione, rimandando se possibile ad altra sede ogni ulteriore approfondimento riguardo all’intera faccenda.

 

Uno sguardo a "sinistra"

 

Il problema dell’ "attacco"

 

Facendo riferimento a quanto già si è detto riguardo alla horn conception, il discorso relativo all’attacco potrebbe essere in qualche modo approfondito mediante un paio di stimolanti citazioni.

Innanzitutto, Jim Hall, nella cui scala dei valori vengono, prima di ogni altro:

 

"Il suono, la qualità del suono e poi l’aspetto melodico"(18),

 

e poi Pat Metheny:

 

"Sono sempre stato molto interessato a come produrre il sound della mia chitarra, in modo da ampliare i timbri e l’utilizzo che normalmente vengono fatti sullo strumento. Questo avviene creando una qualità di risonanza risultante dalla metà del ponte anziché dal body, mediante l’uso accentuato della mano sinistra che ‘batte’ sui tasti, mentre la destra tocca delicatamente le corde"(19);

 

In mano al chitarrista di Lee’s Summit, qualunque chitarra, comunque amplificata, quasi per magia

 

"suona come suonano tutte le chitarre di Pat Metheny dimostrando che è il tocco e non gli effetti a fare il sound." (20)

 

Non meno sensibile al problema dell’attacco appare Joe Diorio che risolve la questione operando su più fronti:

- montando corde dalla scalatura piuttosto "dolce", non ricoperte fino al Sol;

- utilizzando con delicatezza plettri di calibro medium, capaci di trarre, soprattutto da corde sottili, note alquanto "cariche", ma nel contempo assai vellutate;

- potenziando l’energia e la resistenza della dita della mano sinistra, già a partire da una personalissima impostazione del problema armonico, che richiede in Joe Diorio un notevole impegno "fisico" da parte di tutte le dita;

- gestendo elettronicamente il suono in direzione medio-grave (tanto sui potenziometri dello strumento quanto su quelli dell’amplificatore);

- risolvendo l’action della tastiera nel senso di una sua notevole morbidezza, così che le corde possano all’occorrenza risuonare già alla semplice pressione delle dita della mano sinistra, che le raggiungono comunque con decisione e consapevolezza.

 

E che dire della particolarissima concezione ritmica di Mr. Rhythm, ingrediente fondamentale nel compatto sound delle orchestre del "Conte"?

 

"Questo era Freddie Green: niente assoli, nessun tentativo di mettersi in evidenza, ma soltanto tenere il ritmo col suo inconfondibile stile ‘frusciato’. […] Quel chitarrista imperturbabile, la cui presenza era appena percettibile nel gran clamore dell’orchestra, ma senza il quale la stessa non avrebbe avuto quel sound, ne era un po’ il talismano, l’atout segreto." (21)

 

Sembra quasi che quel suo tanto caratteristico stile altro non fosse che la logica espressione di una squisita riservatezza personale naturalmente tesa a smorzare (e quindi ingentilire) il momento dirompente di quell’incipit che dell’accordo costituisce l’attimo iniziale, per non lasciar godere che il passaggio uguale e leggero delle soffici zampine di un gatto…

È il caso di sottolineare come le sei corde non venissero mai suonate tutte assieme da Green: quasi che in fondo al ritmo e all’armonia si dovesse intravedere anche una qualche tessitura melodica, opportunamente delineata dall’oculata scelta accordale e timbrica.

È pure questa una soluzione al problema dell’attacco, e quindi una sorta di horn conception che trova stavolta inconsueta applicazione su un versante diverso da quello della single note.

Va tuttavia ricordato come non tutti i chitarristi, passati o presenti, si pongano il medesimo problema con altrettanta urgenza, ma ciò conferma l’efficacia distintiva di quel tipo di osservazione empatico-materico-corporea del quale si sta dicendo fin dall’inizio.

Alcuni tra i massimi cultori del nostro strumento dimostrano un sorprendente e motivato interesse nei riguardi di qualunque strategia (anche elettronica) che consenta di rispondere in modo creativo alla questione dell’attacco.

Basti pensare al particolare approccio di un Bill Frisell, presso il quale alla consapevole visione di un asciutto e deciso funzionamento della mano sinistra sulla tastiera si unisce il più stimolante utilizzo di un’essenziale pedaliera, ovvero di sussidi elettronico-digitali attraverso cui il suono dello strumento possa essere efficacemente processato; o al modo in cui le illimitate possibilità offerte dal Synclavier sono state con grande senso di equilibrio padroneggiate da un Metheny:

 

"Suonare il Synclavier è veramente difficile senza che la macchina ti prenda il sopravvento; quello che lui riesce a fare è veramente fantastico"(22);

 

"Il suo stile sulla chitarra synth è molto organico ed il suo suono è naturale, niente a che vedere con molte cose nuove e strane che si ascoltano." (23)

 

Anche ad un’osservazione un po’ frettolosa, sembrano invece francamente indifferenti ad una prospettiva horn chitarristi come Charlie Christian, Tal Farlow, Herb Ellis, Kenny Burrell, Joe Pass, Lee Ritenour, Christian Escoudé e Bireli Lagrene (24).

Tra i più rappresentativi ambasciatori italiani della sei corde, non sembrano interessarsene a sufficienza un Gibellini o un Cifarelli, evidentemente attratti da obiettivi d’altro genere, mentre piuttosto intenso appare, sotto questo aspetto, il lavoro di un Fiorentino o di un Malaguti (la cui limpida concentrazione è di per sé chiaro indizio del peso attribuito al problema della qualità di un suono sempre e comunque pregno di ricercatissime connotazioni stilistico-espressive).

Appena un po’ sfuggente, infine, l’universo sonoro di un Franco Cerri, perennemente ma anche fecondamente in bilico tra l’horn e il plectrum sound.

Più di ogni "trattazione", valga dunque per lui il lirismo di un’affettuosa dedica:

 

Non è più d’oro, il silenzio.

Chi urla di più vince.

Hanno assassinato i sussurri,

violentato le parole d’amore,

imbavagliato i sogni.

Che fare ?

Ascoltare Franco Cerri, per esempio.

Sentire di nuovo la gentilezza e la discrezione.

Godere di accordi innamorati della vita […]

 

(Gigi Barcella, dal libretto di Cerri & Cerri, Dire Music, 1994)

 

Il "breath"

 

Si tratta di un problema collegato innanzitutto al particolare respiro con cui si suona.

Nei seguenti termini si esprimono Wynton Marsalis, Mike Metheny e Dave Liebman riguardo ad un Pat Metheny esaminato sotto questa particolare angolazione:

 

"Si sente che ha ascoltato molti horn players e cerca di suonare con quel breath"(25);

 

"Nel suo modo di suonare si sente il tipico fraseggio degli ‘Horn player’. Pat ha sempre cercato di avvicinarvisi e ha sempre lavorato su questo tipo di flow vuoi per l’influenza che ha avuto ascoltando trombettisti (io, nostro padre e il nonno) ma in misura maggiore perché ha sempre ammirato i grandi horn master "(26);

 

"Pat è effettivamente interessato alle ‘horn lines’, cerca di suonare come uno strumentista a fiato. Ritengo questa una cosa molto giusta, perché con la chitarra potresti cadere nelle cose tutte dita e pensare come un soprano o un trombettista è senz’altro una buona idea." (27)

 

Molti chitarristi, diversamente da Pat, hanno pensato e pensano alla chitarra come ad un pianoforte.

Tra questi lo stesso Joe Diorio, il quale, facendo riferimento ai "great piano masters" (28), lancia volentieri una sorta di battle tra i due strumenti, puntando soprattutto sulle rispettive possibilità armoniche, e nel senso di un più aperto dispiegamento delle potenzialità espressive della chitarra, da suonare non soltanto "chitarristicamente", bensì esaltandone ogni altro aspetto, dal ritmico-percussivo, al timbrico, al melodico, all’armonico.

Ma, fuori dall’ambito più schiettamente jazzistico, si pensi anche ad un ben diverso strumentista che, percorrendo strade sempre e comunque tortuose, ha spesso rischiato di bere alle più autentiche sorgenti della musica afroamericana: Robert Fripp.

È soprattutto nella produzione King Crimson (era questa la denominazione del gruppo da lui diretto) anni ’70 che si possono seguire le variegate evoluzioni di una ricerca coerentemente tesa a sostituire la chitarra (soprattutto classica, acustica o processata) al pianoforte, e torna alla mente soprattutto Lizard (1970), LP da tempo disponibile anche in CD.

 

La tastiera

 

Quel che, dal punto di vista dell’occhio, mi affascina di più in una chitarra è il "sistema" corde/tastiera.

Qualunque sia la qualità del legno di cui quest’ultima è costituita, dopo un certo tempo (diciamo almeno un paio d’anni) che la si percorre ed asciuga essa assume una speciale e serica lucentezza (ovviamente, non la stessa che è possibile ottenere fin dal giorno dell’acquisto, spalmandole sopra uno di quegli inutili olii…), che la fa splendere di una trasparente luminosità sotto i fari di una sala da concerto o, più semplicemente, ai primi raggi che all’alba il sole proietta entro la stanza in cui la si è lasciata riposare per un’intera notte.

Questa "luce" rappresenta per me un autentico incanto, come una sorta di Great Spirit quotidiano che dallo strumento sorge e invita agli esercizi mattutini. Le corde, anch’esse puntualmente asciugate e lucide (specie se lisce), ingioiellano il tutto.

La contemplazione di questo piccolo spettacolo lascia indovinare l’action che si è data allo strumento nel regolarne la distanza corde-tastiera.

L’ideale è che essa sia "ragionevolmente minima", evitando dunque che le corde "friggano".

Ma talora lo fanno semplicemente per difetto proprio o a causa di qualche magagna della stessa tastiera.

Ciò accade solitamente quando quest’ultima non è perfettamente diritta, e la cosa non dipende sempre e soltanto dalla tensione a cui l’ "anima" viene sottoposta. Infatti, esistono manici che non vogliono proprio saperne di allinearsi in qualche modo, nonostante la loro anima sia stata tirata fino allo stremo o in tutte le maniere possibili (tanto sono difettosi); al contrario, altri sembrano nascere provvisti di un tale senso della disciplina che l’anima possono anche scordarsela.

Una mia vecchissima Telecaster è tra queste.

L’importante, dunque, è che il manico si lasci "fare".

Allora lo si raddrizza tendendolo al punto giusto, cioè lasciando che la tastiera possa presentare, una volta montate e tirate le corde, un’impercettibile e ininterrotta curvatura più o meno fino al 20° tasto. Ciò consentirà di regolare il capotasto 0 e il ponte collocato sulla tavola armonica, all’estremità inferiore del diapason, in modo tale che, sguardando con un solo occhio tastiera e corde dall’alto della paletta, le due realtà procedano esattamente di pari passo e parallele.

A questo punto, si va a verificare se lo strumento gode effettivamente di una "sana e robusta costituzione" o semplicemente sta bluffando: tutte e sei le corde, pizzicate a vuoto o premute ad ogni loro tasto, dovranno risuonare a dovere.

Soltanto allora la chitarra potrà definirsi "perfetta" (almeno sotto questo aspetto).

Tutto ciò è estremamente importante dal punto di vista della "formazione del suono", dal momento che una action morbida e una tensione uniforme delle corde sulla tastiera consentirà al musicista di comportarsi durante la propria performance diversamente da un gladiatore, senza altro impegno che la pura intenzione di produrre musica: allora il suono fluirà pieno, limpido, morbido, e tutto quel gioco tra plettro e mano sinistra di cui sopra si è detto verrà sensibilmente raccolto e pienamente restituito dallo strumento sul piano della qualità sonora ed espressiva.

Altro problema relativo alla tastiera concerne la sua posizione rispetto al braccio sinistro, e dunque alla mano corrispondente, ma soprattutto rispetto al "cuore".

In questo senso, però, il discorso confluisce nell’analisi riguardante le posture chitarristiche (v. sotto), che, a dispetto delle apparenze, non costituiscono affatto un puro dettaglio scenografico.

 

Il "body" del desiderio

 

"Adoro la mia Ibanez […] C’è qualcosa nella forma e nel tono di questa Ibanez che è come stringere una donna con un grosso sedere. Mi piace questa sensazione. Non riuscivo a trovarmi con uno strumento come la headless Steinberger. Inoltre quel corpo interamente realizzato in grafite mi lascia freddo. Ho bisogno di sentire il suono che risuona e vibra nel legno vicino al mio corpo. Ho iniziato da ragazzino con una Hagstrom solid body, poi ho avuto una Les Paul, e a 16 anni sono passato a una chitarra Guild arch top. Da allora in poi mi sono abituato a sentire le vibrazioni delle note nel corpo. Ecco perché ho delle sensazioni tanto strane quando adesso suono chitarre solid body." (29)

 

Ricordo un chitarrista classico, "padano", per il quale una solid body altro non poteva essere che un discreto "tagliere per polenta".

A parte questo, non mi sorprende affatto l’iniziale divagazione di Scofield, comunque fin troppo "platonica" rispetto a quanto, nel corso di una non più recente intervista televisiva, John McLaughlin candidamente affermò, riconoscendo nelle proprie chitarre una sorta di ladies of the road che, ammiccando fin dalle prime ore del giorno dai loro confortevoli supporti, gli strizzavano l’occhiolino sussurrandogli con impazienza "E allora, John, cosa facciamo oggi?", in attesa di essere "sbattute" a dovere.

Quasi folgorato da un’illuminazione improvvisa, in quell’istante compresi come mai tutta la musica del chitarrista inglese mi fosse sempre parsa tanto vuota e superficiale, quantunque egli sostenesse di celebrarvi a love supreme sulle ali di una tecnica indiscutibilmente straordinaria…

Preferisco piuttosto immaginare il body del musicista e quello della chitarra in chiave allegorico-sognante, intensamente avvinti in un pànico Abbraccio klimtiano, in cui l’artista inconsapevolmente navighi verso luoghi mai visti né conosciuti, comunque attento a ciò che suona per capire che cosa sia e da dove provenga.

È facile supporre come, in tale amplesso (che ben poco ha di materiale, sebbene da un’attrazione corporea prenda le mosse), la chitarra possa trasformarsi nel privilegiato e ideale "strumento" di una ricerca la cui dimensione erotico-affettiva quasi tantricamente consente l’apertura di innumerevoli ed insospettati mondi interiori (chissà, magari anche "collettivi").

Fondamentale è che i due corpi possano reciprocamente "compenetrarsi", proprio come nel cartone di Klimt (30).

A tale scopo, si procede normalmente per fasi visualizzabili mediante un diagramma di flusso:

 

- si visita un’accreditata esposizione, animati da una almeno vaga idea riguardo a quel che si sta cercando,

- si collezionano liste di dati che possano aiutarci a risolvere il nostro problema,

- si valutano i vari tipi di chitarre esibite (solid body, hollowbody, acustica, country, classica, synth, ecc. Su questo aspetto, i gusti possono aprirsi ed espandersi notevolmente col passar del tempo e con l’infittirsi delle esperienze) (31),

- il loro costo (che troppo spesso non corrisponde affatto al reale valore di uno strumento. Da più di tre anni mi limito a suonare, e con estrema soddisfazione, un’umilissima semiacustica prodotta in Estremo Oriente secondo le più frigide e banali tecniche di trattamento e assemblaggio. Per averla non ho dovuto accendere alcuna ipoteca. Eppure, mi rendo conto di non conoscere un altro strumento tanto duttile e disponibile al canto. Per non dire della precisione tecnologica, assolutamente incredibile!, e della progressiva maturazione nel tempo di tutti i suoi valori materico-timbrici),

- se ne provano circa dieci

- ed infine se ne acquista una,

- sperando vivamente che non finisca per rivelarsi ben presto un’autentica ciufeca:

- cosa che, invece, accade spesso.

 

Se, al contrario, tutto va per il verso giusto, allora

 

- la si "addomestica" (un po’ come fa il Piccolo Principe con la propria rosa, e come ho fatto anch’io, regolando a puntino la mia "coreana", suonandola a più non posso, salvaguardandola da ogni fatale stress ed infine… contemplandola)

- e le si dà persino un nome che ne catturi l’essenza fine, ponendola nel contempo in intima relazione con noi stessi.

 

In ogni caso, val la pena di riflettere per un attimo su un’equilibratissima considerazione del saggio Pat (32):

 

"La Gibson ES 175 è praticamente la mia prima chitarra. Sono più di vent’anni che la suono duramente, ogni giorno; è quasi diventata parte di me. Il rapporto che ci lega è simile a quello del giocatore di baseball con il suo guantone. Ho persino timore che qualcuno la tocchi. Ogni anno che passa suona sempre meglio. Hanno cercato di costruirmene di simili, ma nessuna suona come lei. Eppure non è la migliore chitarra in assoluto, è semplicemente una regolarissima vecchia chitarra."

 

Le corde

 

" […] ci sono dei chitarristi che vogliono conoscere che tipo di chitarre e corde usi e io rispondo sempre volentieri, ma penso che questo non sia realmente importante come lo è lo spirito della musica e l’atteggiamento che hai nell’essere musicista." (33)

 

Dunque, stando alle parole di Pat Metheny, conoscere con esattezza la qualità delle corde abitualmente utilizzate da un certo musicista non è poi tanto indispensabile se si vuol comprenderne appieno l’arte; ma poi sappiamo benissimo quanto sia facile reperire presso un qualsiasi nostro buon negoziante una muta di D’Addario Strings "Pat Metheny Deadwound", 0.11 light gauge Flat round o, in alternativa ad essa, delle D’Addario Chromes High Finish Ribbon Wound Jazz Light Gauge, 0.11.

E non credo proprio che il chitarrista di Lee’s Summit possa facilmente dimostrarsi del tutto estraneo al "piccolo" business.

Per nostra fortuna, alla prova dei fatti i due prodotti appena menzionati risultano essere entrambi di ottima qualità e, in tal senso, non ci sentiamo vigliaccamente raggirati dall’espediente pubblicitario, ringraziamo il chitarrista e la casa produttrice per non aver abusato affatto della nostra fiducia e riteniamo persino del tutto credibile che Metheny monti sul serio quel preciso set di corde sulla propria Gibson ES 175 o sui modelli che più recentemente la Ibanez ha realizzato appositamente per lui. In effetti, si tratta di corde che si adattano magnificamente a quel tipo di body e di suono, oltre che al caratteristico breath di Pat.

Allo stesso modo, crediamo che Franco Cerri monti davvero delle corde lisce sulla propria Gibson L5 (anche se, prima ancora, è il nostro orecchio a dimostrarcelo), come anche sembra plausibile il fatto che, sulla chitarra per lui appositamente costruita da Jimmy D’Acquisto, Jim Hall monti delle corde prodotte dalla medesima casa: tanto esse appaiono congrue a quel tipo di sonorità che il grande "poeta" della chitarra jazz soprattutto in questi ultimi anni sta coerentemente dimostrando di voler perseguire (e lo sa bene chi, durante un suo concerto, ha avuto la grazia di poter percepire distintamente, a vincere sul volume stesso dell’amplificazione, le ineffabili risonanze di un "connubio legno/metallo" davvero incomparabile). Certo è che Joe Diorio suona esattamente con quelle Di Salvo da lui stesso palesemente pubblicizzate, mentre John Scofield dichiara di montare delle "speciali corde d’acciaio" sulla propria chitarra acustica. Non ne conosciamo la marca, ma fermamente crediamo che quel suo inconfondibile tocco sapremmo ben riconoscerlo anche su corde diverse da quelle.

Il problema è un altro: nello scegliere un preciso set non è quasi mai possibile prescindere del tutto dal tipo di chitarra con cui si desidera combinarle.

Personalmente, non mi sognerei mai di montare delle 0.12 lisce su una Telecaster.

Qualcuno magari lo fa, ma ciò non può che confermare, a questo punto, l’assoluta soggettività di ogni scelta attinente alla "formazione del suono".

Vedo bene, invece, delle 0.11 lisce su una mia Epiphone Emperor che sembra realizzata appositamente per loro, mentre per la più recente "estremo-orientale" preferisco delle D’Acquisto 0.11 o delle Ernie Ball 0.10, entrambe zigrinate: sembra sia lei stessa a "chiedermele".

Sulle corde va però fatto un discorsetto molto generale.

A parte le consuete considerazioni di natura puramente tecnica, come ad esempio la resistenza della loro fibra al tempo (così che "tengano" al 12° tasto, o non si producano troppo presto, assieme alle note, della sgradevoli ed estranee sonorità), o la pienezza/intensità di suono che riescono ad inviare al/ai pik-up, esse vanno valutate, secondo me, a chitarra non amplificata e dando tempo al tempo.

Trovo infatti che delle buone corde possano, se applicate allo strumento giusto, dare il meglio di sé (nel senso dell’espressività, della morbidezza e della sensibile disponibilità ad una fine manipolazione) soltanto dopo una settimana di utilizzo piuttosto costante, perché solo da quel momento, al prolungato ed erosivo passaggio delle dita sulla loro superficie, allo strofinìo del panno utilizzato per la pulizia quotidiana (se necessario, appena imbevuto di alcool) e all’azione "stagionante" dell’atmosfera ambiente, esse riescono a scuotersi di dosso quell’acerbo "odore di nuovo" che certamente abbaglia per brillante aggressività, ma non è ancora in grado di offrire le deliziose fragranze che un vino di classe può liberare soltanto dopo qualche tempo dall’apertura del contenitore che lo racchiude.

Per loro sfortuna, è esattamente al sopraggiungere di un tale miracolo che i chitarristi per lo più disarmano il proprio strumento, montandovi un’ottusissima nuova muta.

 

Una volta che sia stato risolto il problema del tipo di corde da utilizzare, della loro marca e scalatura, oltre che del "per quanto tempo le tengo su?", un’altra importante faccenda concerne il modo di "viaggiarci", la preferenza per determinate "regioni" della tastiera (o corde) anziché altre, e dunque la tendenza ad esprimersi al meglio soprattutto frequentando ben precisi registri.

In questo senso, tra i chitarristi citati nel corso del presente lavoro, alcuni si mostrano apertamente interessati ad una coltura intensiva dell’intero territorio reso loro disponibile, mentre altri sembrano piuttosto prediligere "fazzoletti" ben delimitati.

È ovvio che anche su questa base viene a definirsi il particolare gusto di ciascun musicista.

Ve ne è uno, ad esempio, tra i cui più appariscenti caratteri stilistici evidente risalto assume la sicura predilezione per il suono delle prime corde (mi cantino, SI e SOL, quando non ricoperto). Anziché migrare su quelle soprastanti (ad esempio, sul RE), il chitarrista in questione preferisce cambiare capotasto per ottenere determinate note senza dover tuttavia rinunciare a quel particolare timbro assicurato dal diametro fine delle prime corde.

Inoltre, lo stesso artista dimostra frequentemente una spiccata, e forse "spirituale" (o intellettuale) tensione ad arrancare, peraltro in modo estremamente drammatico ed espressivo, verso le più toccanti sonorità della prima corda suonata oltre il 12° capotasto (di norma fino al 20°), quando l’intera sezione di note non venga addirittura lanciata all’ottava superiore mediante l’applicazione di congrui espedienti elettronici.

 

La mano sinistra

 

Come si è già detto in precedenza, e nel contesto dell’intero discorso fin qui svolto, sulla mano sinistra sembrano davvero abbattersi le più onerose responsabilità.

Un adeguato utilizzo delle sue potenzialità (non soltanto tecnico-accademiche) può infatti determinare esiti altrimenti insperabili. Così, pur non avendo a disposizione che il più "frigido" degli strumenti (indipendentemente dal suo costo, che, come già sappiamo, non la dice affatto lunga sulla qualità del medesimo) o un amplificatore malamente regolato su toni decisamente treble o fuzzy, è possibile, ad esempio, sortirne melodie oltremodo "flautate", degne della migliore tradizione horn conception.

Per non dire di tutta quella vasta serie di "insaporitori" espressivi che soltanto una mano sinistra ben coltivata è in grado di attualizzare al meglio: mordenti, acciaccature, bends, scivolamenti, portamenti, vibrati, legati e via dicendo.

Ci si rende conto della mano sinistra soprattutto dovendo di norma adattarsi a suonare in determinate condizioni, nel senso che (come si è già visto parlando di Wess Montgomery) la necessità porta alla scoperta o, per lo meno, alla piena coscientizzazione di determinate soluzioni.

Personalmente, concepisco il fatto di suonare la chitarra innanzitutto come una sorta di quotidiana "meditazione", finalizzata anche a qualcos’altro diverso dalla musica, e ormai da tempo mi è indispensabile dare inizio a questa pratica fin dal primo mattino, esercitandomi per circa un’oretta.

Poi, essendo un insegnante, devo filare a scuola.

I miei esercizi mattutini tendono in modo particolare:

 

- alla conquista di una posizione seduta il più possibile stabile e "ortopedicamente" corretta (per ridurre a zero il peso dello strumento, collocato in posizione contrabbassistica, ne appoggio saldamente la base sulla gamba destra),

- al conseguimento di un’adeguata "registrazione" del plettro,

- al "risveglio" dell’energia necessaria ad un efficace funzionamento delle dita della mano sinistra (a tale scopo, la stessa respirazione va gestita in modo tutt’altro che approssimativo; in ogni caso, per nessuna ragione si deve suonare in apnea) e, infine,

- ad una crescente consapevolizzazione del mio personale rapporto con le corde, la tastiera e il suono che se ne genera.

 

Tutto va "sentito" nella sua più immediata fisicità.

Il buon risultato strettamente musicale non è, a questo punto, che un elemento del tutto secondario, ovvio e prevedibile.

Quel che conta è quasi esclusivamente il "percorso", e durante questo eseguo delle scale o alcune mie composizioni, scopro o quindi esploro territori soltanto un attimo prima a me ignoti, scrivo musica o semplicemente fisso qualche idea sul pentagramma. Suono tutto quel che mi va di suonare dapprima molto lentamente e con estrema concentrazione, poi (ma la cosa accade da sé) con crescente sicurezza, pulizia (quest’ultima costituisce per me un valore musicale assoluto) e, se necessario, velocità. C’è infine un momento in cui capisco che tutto va bene. È lì che posso interrompere, se proprio non ho modo di restare ancora qualche po’ assieme alla mia "coreana di serie".

Ora, poiché questo accade, come ho detto, alle prime ore del mattino, il sonno dei miei vicini ha tutto il diritto di esigere, da me, la dovuta considerazione: persino il suono di una semiacustica non amplificata può risultare seriamente intollerabile alle sei e mezzo del mattino, specialmente durante il week-end.

Non resta allora che cavarmela a passi felpati, in sordina, e per far questo il plettro deve limitarsi a sfiorare (e neppure sempre) le corde, mentre alle dita della mano sinistra va necessariamente affidato il grosso del lavoro: ne risultano sonorità piene, decise ma soffuse, e soprattutto quasi del tutto depurate da quell’attacco che neppure i miei coinquilini riuscirebbero mai a tollerare.

 

Leggendo empaticamente foto di chitarristi in concerto, è possibile individuare e "sentire" con estrema immediatezza la caratteristica posizione delle dita "a martelletto" sulla tastiera, là dove il problema della formazione del suono ne ha determinato una gestione energicamente consapevole.

Tra tutti, penso a Bill Frisell, e alla sua cauta, circospetta, lucidissima ricerca:

 

"Costituzionalmente allergico alle convenzioni correnti sia in ambito jazzistico che nel rock, Frisell riflette inizialmente molto sul suono: alternando con sapienza timbri naturali e manipolazioni elettroniche, egli muta la voce strumentale anche durante la stessa esecuzione, trasformandola da magra e acidula in torrida e abrasiva, attraverso un gioco di legati e glissando e con alterazioni di volume, che saranno costantemente i suoi segni più riconoscibili. Sul suono (trascolorante, dunque) si forma il fraseggio, un fraseggio sorprendente se rapportato a quello di altri chitarristi usciti dalla Berklee School. Niente patterns, pochissimi riff e ostinato, la chitarra di Frisell entra in assolo quasi esitante, con poche note, fino a trovare la via per una coerente narrazione, a volte carica di lirismo, in altre invece assorta in lunari meditazioni." (34)

 

Chitarristiche posture…

 

" […] non esiste praticamente alcuna azione umana individuale o gesto di qualsivoglia tipo, conscio o inconscio, che non sia idoneo a trasmettere informazione ad un osservatore interessato […]." (35)

 

Joe Diorio: filosofica buddhità della posizione seduta al modo del più schietto classicismo.

Pat Metheny: tra le foto di copertina di Secret Story, o in alcune sequenze di More travel (video), è possibile intravedere una "donna" amorevolmente, nostalgicamente cullata sulle ginocchia.

John Scofield: concentrata tensione in una posa quasi contrabbassistica, religiosità "immanente", ascolto di sé nell’interfaccia /strumento accostato al cuore/corpo.

John Stowell: stele (segno misterioso puntato verso il Cielo), menhir, pinnacolo, guglia, obelisco, parafulmine, campanile; "elevazione", "ieratica" concentrazione, musica/preghiera, ansia del trascendente, tensione trasparente e tersa, fragile come cristallo…

 

Ce n’è già abbastanza non solo per una cinesica, o per una sorta di "iconologia" dello spectaculum in quanto opera d’arte, ma anche e soprattutto per una riconsiderazione psicoanalitica della dimensione posturale comunque insita in ogni performance estetica che implichi la presenza di almeno un corpo.

Nel nostro caso… due.

 

Per concludere…

 

Avevo appena dodici anni quando con religioso rispetto collocavo sul piatto del mio "giradischi" un LP il cui titolo doveva essere qualcosa come La sera a casa con te o, forse, Metti una sera Cerri, o chissà…

Recava, tra le altre cose, una sognante esecuzione "pastello" di My one and only love. Composizione stupenda.

Da allora, non so più quante altre e differenti maniere di interpretare quello stesso brano ho conosciuto.

 

Ricordo soltanto che allora, mentre l’ascoltavo affascinato, in quell’one and only love immaginavo l’inesprimibile body di una sei corde teneramente baciata dalle sensibili dita dell’artista…

 

NOTE                                                                                                                          

1) "Steve Swallow realizzò [il proprio] strumento per sé […] adattato alla sua struttura fisica, con la parte elettronica ideata per le sue note delicate e cantabili, e con il manico senza tasti che esalta il lirismo e la grazia del suo fluido stile, ricco di legati" (John Fordham, Jazz, Idea Libri, p. 88).

2) J.E.Berendt, Il libro del jazz, Garzanti, 1973, pp.130-2.

3) Wess Montgomery, in Maurizio Franco, Wess Montgomery, supplemento al n. 511 di Musica jazz, p. XXXIX.

4) Pat Metheny, in Wess Montgomery, cit., p. XLIV.

5) M. Franco, Django. Mito ed eredità di un musico gitano, Musica Jazz.

6) R. Barthes, Rasch, in AA.VV., Lingua, discorso, società, Parma, Pratiche Editrice, 1979, pp. 267-276.

7) R. Barthes, La musica, la voce, il linguaggio, in Nuova Rivista Musicale Italiana, 1978, n. 3, p. 366.

8) G. de Mallac - M. Eberbach, Che cosa ha veramente detto Barthes, Roma, Ubaldini Editore, 1973, p. 110.

9) Thic Nhat Hanh, Introduzione allo Zen, Milano, Sonzogno, 1974, p. 24.

10) G. Bergamaschi, Per una considerazione tipologico-operativa del "discorso sulla musica", in Musica/Realtà, Bari, Dedalo Libri, 1981, n. 5, pp. 71-86.

11) R. Barthes, La musica, ecc., cit., p. 365.

12) G. Stefani, Perché la musica, Brescia, La Scuola, 1979, p.13.

13) L. Viva, Pat Metheny, Padova, Franco Muzzio Editore, 1989, p. 90.

14) Milton Nascimento, in L. Viva, Pat Metheny, cit., p. 204.

15) Pat Metheny (da un’intervista, 1992).

16) M. Franco, Jim Hall, supplemento al n.535 di Musica jazz, p. XXXVII.

17) G. Bergamaschi, da Composizione e improvvisazione nel jazz (dispensa ciclostilata distribuita nel corso del relativo seminario), Soave, 2 maggio 1999, VIII Convention dell’ADGPA.

18) in R. Valentino, Jim Hall. Il poeta della chitarra, in Strumenti e musica, Aprile 1993, p. 19.

19) in L. Viva, Pat Metheny, cit., p. 89.

20) L. Viva, Pat Metheny, cit., p. 89.

21) AA.VV., I maestri del jazz, De Agostini, 1990, vol. II, p. 51.

22) Bill Frisell, in L. Viva, Pat Metheny, cit., p. 88.

23) Hiram Bullock, in L. Viva, cit., p. 64.

24) In tal senso va letto con grande prudenza il passaggio in cui Berendt (cfr. op. cit. p. 275) afferma che "tutti i chitarristi dopo Charlie Christian suonano il loro strumento come un ‘corno’, cioè come se fosse uno strumento a fiato", dal momento che, in quel preciso luogo, il critico tedesco intende farne una questione piuttosto di fraseggio che non di formazione del suono.

25) Wynton Marsalis, in L. Viva, Pat Metheny, cit., p. 160.

26) Mike Metheny, in L. Viva, Pat Metheny, cit., p. 6.

27) Dave Liebman, in L. Viva, Pat Metheny, cit., p. 314.

28) Joe Diorio, A guitar approach to Rhythm Changes, Milano, Intra’s Edizioni Musicali, 1993, p. 23: "Ascoltate tutti i Grandi del pianoforte: sembra che essi utilizzino queste tecniche [Ciclo della Terza Minore] con estrema facilità rispetto a noi chitarristi. Almeno per il momento! Il nostro giorno arriverà."

29) John Scofield, in John Scofield. Dal jazz alla fusion e ritorno (intervista), Musica Jazz.

30) Steve Swallow (v. qui sopra alla nota 1) non è stato il solo a voler "cucire" sul proprio corpo il tipo di strumento che aveva intenzione di suonare. Tra gli altri basti qui ricordare George Benson: "[…] non ho bisogno di usare il modello di tutti, preferisco averne uno mio, con caratteristiche adatte al mio modo di suonare, alle mie esigenze […] Da quando ho firmato con la Ibanez ho disegnato personalmente circa sei modelli"; da George Benson. Talento e versatilità (intervista rilasciata a Paolo Battigelli per Guitar Club).

31) "Ho sempre avuto paura di perdere la mia personalità con la chitarra acustica, di sembrare magari troppo simile a musicisti come Ralph Towner, ma ora posso dire di aver vinto questo complesso e voglio quindi trovare un piccolo ma preciso spazio anche per le atmosfere acustiche nella mia musica" (John Scofield), in Claudio Donà, John Scofield, supplemento al n.544 di Musica jazz, p. XLV.

32) Pat Metheny, in L. Viva, Pat Metheny, cit., pp. 391.

33) Pat Metheny, in L. Viva, Pat Metheny, cit., pp. 394.

34) S. Merighi, La chitarra mutante, Musica Jazz.

35) O.Calabrese-E.Mucci, Introduzione alla semiotica, Sansoni, 1975, p. 88.

 

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