Diario di fine estate

Gianni Bergamaschi

 

 

12-08-2003

Vi sono faccende che non è possibile "trattare" in modo logico e sistematico, argomentando o "spiegando" esaustivamente, con "metodo", specialmente se sono in gioco le sabbie mobili del fattore "umano".

È concesso, in casi del genere, annotare impressionisticamente, per tocchi rapidi e freschi, metafore, o pure e semplici constatazioni, quasi istantanee del pensiero, quel che può accadere ci passi per la testa in un ben preciso momento.

La registrazione potrà ovviamente risultare incompleta o sfuggente, monca o sospesa in più punti; potrà presentare delle petulanti ripetizioni (comunque testimoni dell’incalzante urgenza di determinate istanze), ma anche e soprattutto degli "orifizi" (così, sul finire degli anni ‘70, non senza originalità il linguista Piero Ricci definiva quei vuoti di significazione testuale fruibili a valle quali tentazioni cooperativo-interpretative), suscettibili di essere integrati in un secondo momento vuoi dallo stesso emittente (autocomunicazione), qualora tornasse a riflettervi, per interrogarsi circa l’intimo perché di un certo tipo di comportamento, vuoi da altri, virtuali destinatari che, infondendo loro nuova vita, consentirebbero a dei nudi graffiti di fungere ancora una volta da pungenti provocazioni alla ricerca, in una situazione comunicativa assolutamente disponibile ed aperta.

Più di una ragione mi ha dunque sospinto ad optare per un’ "interpretazione narrativa", non logico-sistematica ma volutamente incompiuta, dinamica e progressiva, di determinati eventi e problemi, quindi per questo stesso "diario", le cui pagine non vorrebbero troppo differire, almeno nell’atmosfera, da un certo autobiografismo metacognitivo, indubbiamente ricco di fascino (cfr., ad esempio, il Roland Barthes dei Fragments d’un discours amoureux).

Non che prima d’ora la mia ricerca procedesse in modo sostanzialmente diverso (ho sempre annotato da qualche parte ciò che mi passava per la testa, per poi rifletterci con calma al fine di conoscermi meglio), ma ora tutto si fa più consapevole e intenzionale, senza contare l’incalcolabile vantaggio del poter contemplare idee, avventure, "occasioni" speciali ed emozioni nel loro cronologico e sequenziale emergere, tra sogno, dormiveglia e realtà, un po’ come accade al pirata Long John Silver, che non manca certo di un proprio "metodo" per raccontarsi (agli altri e a se stesso):

 

Mi sveglio, mi alzo, faccio colazione, scrivo, ricordo e scrivo, pranzo, dormo di nuovo e sogno. Mi sveglio, scrivo, mi sgranchisco le gambe, dico qualche parola se per caso c’è qualcuno intorno, il che non sembra capitare tanto spesso, scrivo, ceno. Scende la notte, fisso gli occhi nel buio, non vedo niente, sento rumori, riprendo a ricordare […]. Ad ogni modo il tempo passa, mi addormento, sogno come se fossi sveglio […].

 

[B. Larsson, La vera storia del pirata Long John Silver, Iperborea, 1998, p. 370]

 

Un diario, allora, non è che un "mezzo abile" (upaya), un utile espediente per esplorare e "comprendere" narrativamente delle regioni senza dubbio "vive e vitali" (così direbbe il grande Eduardo), ma anche "nebulose" (U. Eco, Trattato di semiotica generale), i cui contenuti resterebbero quindi in gran parte ancora da interpretare, negoziare e socialmente condividere (Rita Vittori, Identità e narrazione, in Per una pedagogia narrativa, EMI, Bologna, 1996, p. 18: "è solo nel momento in cui vengono narrate che [le esperienze] acquistano significato per l’individuo e la collettività"): sempre che tutto questo possa in qualche modo interessare qualcuno.

 

Perché è fin troppo vero, ahimè, quanto rileva Abraham B. Yehoshua:

 

Oggi la gente scrive più di quanto non legga. Scrivono tutti. Scrivono, stampano, diffondono i libri su internet e nessuno legge.

 

[Il lettore allo specchio, Einaudi, 2003, p. 47]

 

 

13-08-2003

 

Il "Corpo"

 

Regolarmente, quando si tentano confronti tra chitarra e pianoforte, al fine di chiarirne eventuali somiglianze e/o differenze, se ne trascura incomprensibilmente la dimensione materico-muscolare.

 

Così fa, tra gli altri, anche Pat Martino quando, nel corso di un seminario da lui tenuto qualche anno fa a Ravenna, si dimostra piuttosto interessato a quegli aspetti che, in ultima analisi, vanno a determinare precise conseguenze sul solo piano dell’armonia e del "fraseggio", dimensioni che strettamente attengono a quelle che potremmo definire "strutture epistemologiche", vuoi del pianoforte vuoi della chitarra.

Il pensiero di Martino, a dir la verità, non sembra dei più "leggibili".

Se ne deduce un’emozione decisamente complessa e comunque indecidibile.

Da una parte, ci sentiamo quasi attratti da inaudite trouvailles che sembra vogliano andare a parare chissà dove; dall’altra, abilmente raggirati.

L’impressione che qualcuno abbia intenzione di prenderci elegantemente per i fondelli svendendoci delle emerite banalità numerologiche (diciamolo pure: delle americanate) è davvero intensa:

 

"La differenza principale tra i due strumenti [pianoforte e chitarra] è che il primo offre una dimensione orizzontale delle note (la tastiera del pianoforte percorsa dalla nota più bassa a quella più alta e viceversa) mentre il secondo offre due dimensioni: verticale (il manico della chitarra percorso dalla corda più grave a quella più acuta, con la mano ferma in una posizione: dall’alto al basso) e orizzontale (il manico della chitarra percorso, su tutte le corde, dalla prima posizione vicino alla paletta verso l’ultima posizione vicina al corpo dello strumento). La tastiera del pianoforte, inoltre presenta due fattori automatici: è composta da 7 tasti bianchi - scala maggiore - e 5 tasti neri - scala pentatonica (7 più 5 eguale a 12) - che si ripetono uguali e orizzontalmente per un certo numero di ottave. La tastiera della chitarra presenta anch’essa due fattori automatici: sono le strutture della triade aumentata, che contiene tre note e dell’accordo diminuito, che contiene 4 note: 3 per 4 eguale a 12. È quindi chiaro che i rapporti meccanici pianistici sono basati sull’addizione, mentre quelli chitarristici sulla moltiplicazione: il segreto del funzionamento della chitarra è la moltiplicazione".

Dopo questa preliminare spiegazione del funzionamento dello strumento, Pat Martino comincia a dimostrare come da quelle due strutture armoniche derivano tutti i tipi di accordi possibili sulla chitarra.

 

[Il passaggio appena riportato è tratto da un numero di Musica Jazz: ahimè, non sono più in grado di citarne gli estremi. Alle parole del chitarrista, poste tra virgolette, vi segue una breve "coda" di Raimondo Meli Lupi].

 

Soprattutto lo stile d’approccio al problema mi sembra grave: viene trascurato con sfacciata sufficienza il fatto che, in primo luogo, è pur sempre la dimensione squisitamente "fisica" quella oggettivamente destinata a produrre i più rilevanti effetti sulle diverse modalità di espressione/produzione del suono e, più in generale, del "vivere" lo strumento. Ben altri sono infatti gli aspetti (solitamente connessi alla personalità del musicista) da prendere in considerazione ancor prima di passare allo strumento, ai suoi paradigmi teorici, o al tipo di musica (rock "duro", jazz, classica, ecc.).

Nel pianoforte le note sono già lì, tutte, e in sede di performance neppure esiste, di norma, il noioso problema dell’accordatura/scordatura più o meno personalizzata. All’esecutore non resta dunque che percuotere, secondo precise intenzioni dinamiche e usando tutte e cinque dita di entrambe le mani, i tasti bianchi e neri, e non c’è da porsi altro pensiero che questo, sotto il profilo del coinvolgimento corporeo (quello direttamente attinente alla produzione del suono).

Certo, alcuni esecutori prediligono accordature "naturali" o imperfette, mentre altri amano collocare, come si sa, materiali di varia natura tra le corde o all’interno della cordiera (in verità, qualcosa del genere mi accadde di osservare anche per la chitarra, parecchi anni fa, durante il concerto di un tale Jean Marc Montera); alcuni esigono tastiere morbide e scattanti, mentre altri le preferiscono "dure", ma poi sono sempre le dita, i polsi e le braccia a funzionare, fornendo un’energia che resta pur sempre unicamente percussiva, il movimento invariabilmente esercitato dall’alto verso il basso, il rapporto con le corde inesorabilmente mediato, e quindi impedito, dalla stessa esistenza di una tastiera meccanica.

Qualcosa di ben diverso accade suonando la chitarra.

Le due mani svolgono funzioni assolutamente diverse e specializzate (cfr., sempre in Didattica, il mio saggio su La "formazione del suono" nella chitarra jazz), ed è la mano sinistra ad essere maggiormente coinvolta nel problema delle formazione del suono, o comunque nel "rapporto di forza" con le corde, per quanto in tale processo "sistemico" anche la destra (scelta e utilizzo del plettro, collocazione della mano, ecc.) giochi un notevole servizio.

 

 

15-08-2003

 

Un’ottimale messa punto della tastiera

 

Oggi sono forse riuscito a conseguire la migliore "sistemazione" della mia Yamaha semiacustica: suonandola mi sento come chi, nell’interplay con la propria amata interlocutrice, le parli sottovoce (uso del plettro), e si senta corrispondere con altrettanta delicatezza.

Somiglia ad un’illuminazione!

Il rapporto tra corde, curvatura della tastiera e altezza di entrambi i ponticelli d’appoggio appare talmente perfetto da risultare possibile "sentire" in modo estremamente vivo il movimento delle corde, le loro vibrazioni, la loro "disponibilità" e via dicendo, come per immedesimazione, per empatia (einfühlung).

Non mi è necessario esercitare alcuna particolare pressione sui tasti per realizzarvi le mie idee musicali, anche se credo sia comunque bene che la mano sinistra continui a dimostrare una consistente energia (ciò che consente di giocarsi al meglio il sincronismo MS/MD, con evidenti guadagni sul piano della qualità del suono: dolcezza, decisione e pulizia).

Tutto è così naturale!

Tra me e lo strumento sembra sia stata miracolosamente conseguita un’ideale condizione (chissà quanto durerà?) di reale "ascolto", di pieno rispetto, di assoluta democrazia. Come dire: "Noi due ci vogliamo bene, e comunichiamo senza farci violenza".

La stessa delicatezza con cui il plettro sfiora le corde e la "facilità" che queste esibiscono nel rispondere è segno di una reciproca, profonda "comprensione".

 

 

17-08-2003

 

La chitarra come…

 

Una chitarra, quella certa chitarra, come un paio d’occhiali da vista: costantemente, fedelmente indossati per anni.

Si finisce per crescere insieme, ci si assesta mutuamente, si aderisce, ci si modella o addirittura corregge l’un l’altro: l’uno sull’altro, l’uno per l’altro, l’uno grazie all’altro, per fare "corpo" unico.

Quello sguardo non avrebbe senso, in assenza di quella "protesi" che protesi più non è.

Quello stile, quel sound, quel particolare approccio non sarebbero possibili se non fosse mai esistito quel preciso strumento su cui la mano, il braccio, l’intero essere (corpo e anima) si sono "formati".

Con l’andar del tempo, si acquisisce una crescente consapevolezza riguardo a ciò che realmente si vuole (e quindi si è), il proprio naturale orientamento, e dunque identità (in ogni senso), oserei dire il proprio posto nell’universo, grazie ad un costante e significativo rapporto narrativo (una storia che si potrebbe raccontare) con il proprio strumento: ci si conosce sempre meglio (anche in senso "riflessivo reciproco": pregi e difetti di entrambi, i secondi furtivamente adorati…).

 

 

19-08-2003

 

Tutto daccapo

 

Se l’attenzione viene decisamente orientata nel senso della formazione del suono, in quanto rapporto materico con il proprio strumento, l’intero problema del fraseggio come niente si dissolve. Il discorso musicale recupera le proprie origini, torna alle fonti, agli elementi costruttivi minimi. Si ricomincia tutto daccapo, vagliando e pazientemente annotando ogni semplice e brevissima cellula melodica (3-4 note) che sembri degna e di cui si possano cautamente studiare le più elementari possibilità e risoluzioni armoniche (diadi, triadi).

Ciò può essere fatto senza minimamente preoccuparsi di tutti quei "parametri introversivi" (ad es., le modalità, la tecnica, la velocità, ecc.; su questo, cfr., in Didattica, il mio saggio "Narrative Guitar" VS Tecno-automatismi), per definizione estrinseci ad un approccio che comunque resta narrativo, e quindi pone al primo posto la "qualità del suono" (non il contenuto della narrazione, ma il modo di raccontare, non il che cosa, bensì il come) in tutti i suoi aspetti.

 

 

20-08-2003

 

Riflettendomi…

 

1.1

Ieri, curiosamente studiandomi nella mia immagine per combinazione riflessa dal cristallo di un’affiche del caro Folon, mi è parso di decifrare non tanto la scura silhouette (mi trovavo esattamente tra l’oggetto in questione e una discreta sorgente luminosa) di un chitarrista, quanto quella di un suonatore di fiati.

Il narcisismo non è tra i miei principali vizi: così mi sono fatto indietro quel tanto che è bastato perché io uscissi dallo specchio e a riflettersi restassero unicamente la parte superiore della chitarra e la mia mano sinistra. Il movimento di quest’ultima su e lungo quel becco slanciato che la tastiera appariva, suggeriva esattamente quello delle dita, pollice sotto e tutte le altre sopra, di un sassofonista attorno al corpo sinuoso ma anche nervosamente espressivo del proprio strumento.

Ho immaginato allora che il suono prodotto dalle corde fosse il breath di un "corno".

Esperimento interessante: la melodia sembrava assumere un rilievo tutto particolare, acquistava in concisione (la chitarra è uno dispositivo tendenzialmente "logorroico", a differenza dei fiati, che non hanno certo bisogno di suonare almeno un miliardo di note perché se ne riconosca la "presenza") e dunque in icasticità; ne veniva potenziata l’intenzionalità; il fraseggio si conformava ad una diversa scelta delle note e del picking; la materialità, la fisicità del suono risultava oltremodo esaltata.

 

1.2

Chitarra come sassofono: levigatezza, espressività, vocalità (anche a squarciagola, oltre che sussurrata) delle note, dell’esecuzione; consapevolezza, libertà dai più "chitarristici" pattern.

 

 

23-08-2003

 

Minimalismo?

 

Ad ogni sitting con il mio strumento, il mio più grande sogno è che quello sia finalmente il giorno in cui riuscirò a suonare una nota, quella nota, quelle tre o quattro note al massimo, in quell’esatto modo per cui varranno un’intera sinfonia.

Credo che esattamente in questo consista, in fondo, l’ardua, asciutta e perseverante, sfibrante ma inesausta, interminabile e paradossale, ascetica e quasi delirante ricerca (che è tensione e attesa; in francese, significativamente, attente) di chi, più che ai fraseggi o alle grandi architetture ritmo-melo-armoniche, avverte di essere interessato ai problemi della "formazione del suono".

"Minimalismo"?

Un po’ come accade nella lirica dei poeti ermetici: sembra che nel cuore di una sola nota possa raccogliersi tutto il succo, il sapore, il colore, il dinamismo, il racconto, l’intenzione e l’emozione per cui di norma pensiamo ad una composizione almeno discretamente complessa e articolata, sotto il profilo melodico-armonico-ritmico.

Rifletto spesso su quella che potrebbe essere l’intensità di un’unica parola, repentinamente e al momento giusto proferita da chi a lungo se ne sia restato in silenzio. Come se quel meccanismo inflattivo, che, nella stessa misura in cui svuota la comunicazione verbale, coinvolge pure (in questi ultimi tempi sempre di più) l’universo musicale, venisse radicalmente posto fuori causa, e si recuperasse la comunicazione/espressione ai suoi livelli più elementari e arcaici ma, nel contempo, intensi e suggestivi.

Lo so: si tratta di una tensione affatto nuova nella storia della vecchia nostra cultura occidentale (penso soprattutto ad alcuni aspetti di molta arte figurativa tra ‘800 e ‘900).

Ogni tanto si ripresenta qualcuno che disperatamente vorrebbe recuperare il senso magico delle "radici", la nativa "sacralità dei linguaggi"…

Come già ho potuto osservare altrove (cfr., in Didattica, La "formazione del suono" nella chitarra jazz), il nostro è senza dubbio tra quegli strumenti che maggiormente consentono di influire in modo diretto e determinante sulla qualità del suono nel momento stesso della sua prima origine.

Questo ne fa l’ideale banco di prova per una ricerca espressiva autentica.

In ogni caso, chi vagheggia tale obiettivo esibisce un singolare atteggiamento, qualora venga sottoposto ad esperienze d’ascolto in cui l’oggetto sonoro-musicale dimostri una qualche complessità fino al virtuosismo, compositivo od esecutivo: non di aperta riprovazione o condanna, sì di prudente e paziente gradimento.

Qualcosa tuttavia non funziona. Se un ipotetico patto col diavolo gli assicurasse di poter comporre cose analoghe o suonare esattamente con quella stessa tecnica da capogiro, sicuramente non lo sottoscriverebbe, perché in quel modo fa musica chi non avverte alcuna tensione.

Ma così possono le cose tranquillamente restare: moltissimi non vi si trovano affatto male.

Il problema di come esprimersi a livelli di più elevata concentrazione tuttavia resta là, come un rimorso, come un rimpianto.

 

 

24-08-2003

Da che parte sta la tastiera?

 

La questione del dove/come collocare la chitarra è stata sempre molto presente nella mia piccola e privata storia di chitarrista autodidatta, fin dall’estate in cui, tra la quinta elementare e la prima media, assieme ad alcuni miei compagni d’avventura, stesso rione, stessa età, tentai di costituire un complessino beat.

Eravamo attorno alla metà degli anni ‘60, e si trattava di assemblare appena due chitarre ("solista" + "accompagnamento"), un basso e una batteria, stile Shadows, poi Beatles, e infine, da noi, Equipe 84, Rocks e tanti altri.

Il primo indovinello che affrontammo (io e il futuro bassista del gruppetto: per il momento formavamo un semplice trio) fu: da che parte va la tastiera? Il mio amico, mancino (non me ne ero mai reso conto prima), optò per la destra, e si trovò benissimo. Io decisi per la sinistra: non mi ci trovai male, anche se per qualche tempo restai sospeso sopra tizzoni ardenti. Il futuro mi confortò in mille modi.

 

Da allora, ho regolarmente preso in seria considerazione le speciali posture esibite dai vari musicisti (non solo chitarristi) che mi hanno musicalmente interessato e, probabilmente, influenzato, via via coscientizzando una progressiva "indifferenza" (fisiologica e "spirituale" insieme) nei riguardi di tutte le altre soluzioni. È così che nel tempo è venuta maturando la mia, che ritengo unica e a me assolutamente congeniale (ovviamente, non è più in questione se sia giusta o sbagliata: di altro ormai si tratta), sotto il profilo delle importanti relazioni corpo/parti del corpo-strumento/parti dello strumento che se ne creano.

 

Tra i miei "posturali eroi", Joe Diorio, ma soprattutto John Stowell, grandissimo artista che non ho mai "finito".

L’idea che di lui mi sono "costruito" è basata piuttosto su toccanti immaginari che su ben determinati e concreti vissuti:

 

"stele (segno misterioso puntato verso il Cielo), menhir, pinnacolo, guglia, obelisco, parafulmine, campanile; "elevazione", "ieratica" concentrazione, musica/preghiera, ansia del trascendente, tensione trasparente e tersa, fragile come cristallo…" (in Didattica, La "formazione del suono" nella chitarra jazz).

 

Sotto tali sembianze, il suo nome "agì"!

 

 

26-08-2003

La tensione all’ "unica nota", suonandone molte

 

Un brano da me composto durante lo scorso luglio sembra riassumere così bene, così pienamente, tante delle mie più "mature" intuizioni/acquisizioni.

Non faccio che suonarlo, a rischio di un’insostenibile monotonia (per chi mi sta attorno).

Pur trattandosi di un’ "opera" polifonica, dal gusto tendenzialmente "pianistico" (soprattutto negli arpeggi), esso proietta magnificamente su tutte le componenti melodiche e armoniche di cui si costituisce quella stessa ansia di concentrazione che la tensione all’unica nota (vedi, sopra, 28-08-2003. Minimalismo?) in qualche modo ha "lasciato crescere" dentro di me.

In altre parole: non riesco a conseguire il livello dell’unica nota che dica tutto, ma già il solo tendervi fortemente trasforma il mio modo di interpretare qualsiasi altra cosa.

 

 

27-08-2003

La "sola melodia", tacendo il resto

 

Perché anche sulla chitarra, sebbene strumento dalle molteplici possibilità armoniche, non si dovrebbero poter suonare delle pure e semplici melodie?

A tutti gli altri strumenti ciò è tranquillamente consentito: ai "fiati" per primi, e pour cause, dal momento che, salvo casi di raro virtuosismo o ricerca estrema, essi non sono in grado di emettere più d’un suono per volta; poi agli archi, che qualche chance oltre il puro utilizzo melodico pure ce l’avrebbero; alle percussioni, dai "tamburi parlanti" agli assolo di batteria nella musica jazz o in quella rock, e via discorrendo.

L’abolizione (che, sottintendendo, lascia tuttavia "intendere") del tappeto armonico, di norma conduttore e disambiguatore di tonalità e significati, conferirebbe certamente alla solitaria linea melodica un indiscutibile carisma, conseguente ad una maggiore intensità o più concentrata espressività, a monte, senza contare il magico potere di "apertura" interpretativa che l’ "allusione" naturalmente implica sul piano della costruzione del senso, a valle.

Quanto più limitata sarà la quantità di note prodotte, e semplice la loro articolazione strutturale, tanto più vasta, non condizionata, attiva e libera potrà risultarne, in fase di fruizione, la "lettura".

E poi, sul versante della liberazione da tutta una serie di stereotipi e triti automatismi, una melodia dimentica dell’armonia indubbiamente facilita quel genere di trasgressive e piacevolissime operazioni che altrove ho voluto definire "exercices de dérèglement".

 

 

29-08-2003

I "loci" dell’emozione

 

Potremmo domandarci quale sia la "regione" della tastiera che più volentieri e spesso frequentiamo, stagliandovi la maggior parte delle nostre "storie".

Altrettanto utile sarebbe osservare accuratamente in quale modo e misura vadano modificandosi i nostri atteggiamenti/sentimenti a mano a mano che su di essa ci muoviamo, cosa che, per quanto mi consta, può indurre a suonare con una certa "intenzione" le corde gravi ai primi capotasti, con un’altra quelle intermedie, poniamo tra il 5° e il 9°, con un’altra ancora il SI e il MI cantino ad esempio tra il 9° e il 14°, ecc.

Se ne potrebbero certo trarre delle singolarissime rivelazioni.

 

 

01-09-2003

 

La penna va tenuta con decisione, ma senza rigidità (un po’ come facciamo con il volante della nostra auto), in modo che la percezione delle corde da parte delle dita sia, attraverso il plettro, diretta e fedele.

La qualità del suono ne risente parecchio, sotto il profilo della "compiutezza".

 

 

03-09-2003

 

"Trattamenti estrinseci" del suono

 

Qual è la mia posizione circa gli effetti "remoti" (elettronico-sintetici, con o senza pedaliere) atti a modificare la nativa voce dello strumento?

In altri tempi, quando si trattava di eseguire della semplice musica "funzionale" (da ballo, da spettacolo, d’accompagnamento, ecc.), anch’io ne ho utilizzati alcuni, mentre ora neppure riesco a tollerarne la presenza, soprattutto se invadente, o avverto nei loro confronti un’irriducibile indifferenza, un profondo disinteresse, se provo a immaginare di doverli utilizzare io stesso.

Non mi dispiace, però, ascoltare di tanto in tanto qualcuno che ne faccia un uso intelligente, appropriato, equilibrato e motivato.

Comunque, gli "effetti" restano per me un vero e proprio impedimento: si intromettono con anti-patica indiscrezione fra il musicista e lo strumento.

Quanta sim-patia, invece, per i suoni acustici, o per quelli di una semiacustica jazz, benché elettrificata…

In che senso e fino a quale punto un suono "elettrico" può ancora considerarsi "acustico"?

Perché il suono fuzzy di uno Scofield, oppure la distorsione franca e a squarciagola di un certo Stern, o infine i delay + delay + chorus di un Metheny non mi disturbano affatto?

Forse non "straniano" irrimediabilmente lo strumento dall’uomo?

 

 

04.09.2003

 

A passi felpati

 

Sulla tettoia passa senza peso

la gatta grigia nella luce fioca,

vedo da sotto lo zampino sceso

che preme contro il vetro e s’apre rosa.

 

(Toti Scialoja, La mela di Amleto)

 

Esercizio: suonare in "punta di penna".

Immaginare che qualcuno stia riposando, e fare in modo che non si svegli per colpa nostra.

I suoni risulteranno vellutati, caldi ma, nello stesso tempo, nitidi.

Ottimo training per sviluppare una consapevole energia al livello della mano sinistra (crescente decisione e capacità di presa à sorprendente pulizia, assenza di indesiderati suoni/rumori secondari) e, nel contempo, per imparare a dosare l’azione del plettro, nelle sue diverse modalità.

Ciò potrà rivelarsi estremamente utile quando, ad esempio in una "polifonia" (fatta di linee melodiche, arpeggi, blocchi accordali, armonizzazioni, brevi linee di basso, ecc.), si tratterà di non suonare tutte le note con la medesima intensità.

"In punta di penna" si potranno infine praticare anche le action più estreme, senza che per questo le corde friggano.

 

 

07-09-2003

Niente di nuovo sotto il sole?

 

Da qualche tempo, latenza/latitanza compositiva.

Mi prende quando non ho ragione o bisogno o necessità (cioè motivo pratico: un gruppo musicale, delle serate, uno spettacolo di qualsiasi tipo, un seminario, ecc.) di farmi venire in testa delle nuove idee: allora approfondisco, "scavo", lavorando su qualcuna tra le mie cose, soprattutto sulle ultime, più fresche e vicine ai miei interessi presenti.

A dir la verità, chiedono udienza non pochi spunti che potrebbero godere di un sicuro e logico sviluppo, ma mi sembra inutile lavorarci: ne verrebbe incrementato semplicemente il piano della quantità, non quello della Qualità, e se c’è una cosa che detesto è proprio questa.

I miei "lunghi studi" recenti (mi riferisco a quelli compiuti durante gli ultimi undici anni, dal ‘92, e mi rendo conto che non sono pochi) mi hanno dato modo di produrre parecchio materiale: così un certo tipo di consapevolezza musicale è andata evolvendosi.

Ora, quella "scala" (upaya) va gettata via. Si tratta di andare avanti, e ciò non significa esattamente, necessariamente "com-por-re nuo-vi bra-ni", anche se praticamente ignoro cosa mai possa essere.

Come sempre, sarà il tempo…

 

08-09-2003

1.

Stanotte ho sognato di un’asta i cui, nel generale caos, si poneva in vendita una bellissima Gibson Les Paul, mancina: action da favola, da fare invidia a quella della mia Yamaha.

Scena analoga, ieri sera in televisione: in una sequenza del film che stavo vedendo, la ben fatta madre della piccola protagonista veniva messa all’asta in un bordello.

 

2.1

Personalmente, frequento un po’ tutta la tastiera.

Mi affascinano, però, soprattutto le quattro corde rivestite quando, dopo qualche tempo (in genere, un paio di mesi), esse perdono quella cristallina e vitrea "novità", quell’acerbo carattere troppo "chitarristico", e il loro suono inizia finalmente ad ammorbidirsi (prima di correggere, avevo scritto "a tapparsi", nel senso di "ovattarsi") in una timbricità tutta vocale.

La "grana" si fa più jazzistica, sofficemente legnosa, nasale o gutturale, non saprei (ed è giusto che non lo sappia): ma è tutto qui?

 

2.2

Vado suonando con soddisfazione ineffabile sei corde montate oltre quattro mesi fa ("Crucifige!", sentenzierà qualcuno). Dovrei forse sostituirle?

A tratti mi rendo conto, con infinita amarezza, che prima o poi dovrò farlo. Ma rimando, dif-ferisco di continuo. La passione che provo per questa "voce" così espressiva e duttile, dolce e profonda, è letteralmente incontenibile. Non mi so decidere all’ "amaro passo". Solo un gravissimo accidente (ad esempio, il cedimento di una delle quattro corde rivestite) potrebbe ridurmi a un distacco tanto disperatamente procrastinato.

 

10-09-2003

Ieri mattina mi è capitato di imbattermi (era tempo che non lo vedevo) in un tale un po’ jazzofilo di mia conoscenza.

Subito mi ha chiesto: "Allora questo jazz come va?".

Ho risposto: "E che ne so io!"

Mi ha ripreso allora bonariamente per non aver assistito al tale o al tal altro concerto, e per non essere stato presente all’imperdibile festival di stagione.

Ho risposto che me ne sono stato fuori dalle scatole per quasi un’intera estate, sicuramente senza perdermi nulla di tanto importante: tutta musica "già detta", replicata fino allo spasimo.

Sentendosi in tal modo appioppare del "vecchio", mi ha chiesto in che cosa consisterebbe allora, secondo me, la novità, nel jazz.

Ho risposto che non esiste alcun jazz, ma solo musica, musica improvvisata, e che molte fra le più grandi star dell’attuale (in gran parte sepolto) firmamento jazzistico alla moda forse non se ne sono ancora accorte.

Quanto alla chitarra, gli ho fatto notare che essa può benissimo essere suonata come un contrabbasso, una tromba, un pianoforte, un tamburo o un sassofono (a seconda dell’istintivo sentire di ciascuno), ma ciò esige, per necessità, che l’intero discorso venga reimpostato in termini radicalmente nuovi.

È rimasto di sasso, anche senza aver capito.

Io, invece, ho rivissuto in un rapidissimo flash la chilometrica telefonata di cui una decina di anni fa Franco Cerri volle gentilissimamente gratificarmi. Disse, tra l’altro, che nel jazz (come anche, suppongo volesse intendere, nella musica in generale) tutto era stato ormai detto.

 

Non diversamente, purtroppo, il vecchio Jorge ammonisce ne Il nome della rosa (U. Eco, Bompiani, 1980, pag. 139) il temerario frate Guglielmo riguardo ad una presunta "unica verità, che è stata detta una volta per tutte". Con evidenza ancora maggiore, nella riduzione cinematografica del medesimo romanzo, J. J. Annaud fa dire all’anziano benedettino che la conoscenza, all’indomani della Rivelazione, non può essere che una costante "ricapitolazione", una fedele, umile, paziente "ricapitolazione".

Quanto a me, ho già scritto qualcosa [in "Narrative Guitar" VS Tecno-automatismi] circa il senso dei pattern e di una loro servile imitazione (o, se vogliamo, "ricapitolazione").

 

 

12-09-2003

Narrando una "storia"…

Mi piacerebbe un giorno avere tempo e modo di poter narrare/narrarmi (a puro scopo "autoterapeutico", ovvero autobiografico-liberatorio [cfr. http://www.lua.it/chi/perche.html], e non solo per cedere a quella vena naturalmente nostalgica che da sempre mi caratterizza) la mia vicenda chitarristica, dai primi toccanti esperimenti con i miei amici di quartiere, a 11-12 anni (formare un gruppo musicale era per noi semplicemente uno dei tanti "giochi" la cui vera ragione [causa e fine] era poter "stare insieme" in modo significativo), alle formazioni più impegnative, dalla "crisi-cesura" dei trent’anni (determinata da che cosa? Dal tipo di chitarra che allora utilizzavo, una "rigidissima" e perfetta Telecaster, chitarra-lager, tuttavia suonata per anni con onore; dal manico e dalla tastiera della stessa, per niente adatti alle mie dita, a dimostrazione di quanto importante possa essere la dimensione fisico-materica; dal suono, troppo metallico, troppo "tele", troppo chitarristico, scarsamente horn; dal genere di musica che allora praticavo, musica d’altri, da ballo, da "spettacolo", da esibire; dall’amplificatore, un Twin Reverb, troppo amplificatore, troppo "rhythm & blues") al "risveglio" del ‘92 (con tutta una nuova e particolare impostazione del discorso musicale, solo teoricamente jazzistico, al punto che un eccellente contrabbassista, Mauro Sereno, simpaticamente definì il mio un "Gianni Bergamaschi Jazz"), e da lì alla recente, interessantissima per me, "crisi-svolta" linguistico-espressiva, della quale il presente diario è in qualche modo palese epifania.

Qui, ovviamente, non è possibile farlo, ma almeno una storia voglio raccontarla.

Quando decisi che seriamente mi sarei dedicato alla chitarra avevo forse 11 anni. A parte uno strumentino giocattolo su cui in precedenza mi ero gingillato, la prima sei corde di un certo peso fu per me una canonica e dignitosa Excelsior che mio fratello (il quale già da qualche anno suonava come batterista in un gruppo di discreto successo regionale) durante una delle più solari giornate della mia vita mi regalò. Non costava che poche migliaia di lire (12.000), ma allora significavano qualcosa e non meno valeva il suono che quell’oggetto era in grado di sprigionare. Fu l’investitura di un inizio "ufficiale". Di fronte ad una tale spesa (avrei voglia di dire, con l’amico storico Antonio Brusa, che in quei tempi di vita semplice "sacrificavamo i soldi che non avevamo") non potevo più tirarmi indietro, e qualche risultato avrei dovuto assolutamente garantirlo.

Non fu difficile: la passione era tanta che sulle corde potevo tranquillamente trascorrere persino 6-7 ore al giorno, senza neppure accorgermene.

A quel tempo, nella mia San Benedetto (del Tronto), di buoni chitarristi ve n’erano parecchi, ma tutti dai quattro ai dieci anni più grandi di me. Mi sembravano dei giganti, incutevano soggezione, e l’idea di poter un giorno avvicinare (e forse appartenere a) quel loro misterioso "mondo" mi entusiasmava e, nello stesso tempo, spaventava. Erano gli anni dei primi Beatles. Che favola!

Non mi pare il caso, ora, di tentarne una rassegna esaustiva, anche se mi piacerebbe tanto poterli ricordare tutti, quegli illustri (per me) sconosciuti (purtroppo). Vorrei tuttavia soffermarmi su un episodio oltremodo indispensabile alla comprensione del mio immaginario fantastico (naturalmente alimentato, prima e dopo, da una miriade di altre esperienze da me poeticamente vissute e assorbite: mai più dimenticate).

In un dancing (La Palazzina Azzurra), molto attivo a quei tempi (esibizioni: da Mina alla Premiata Forneria Marconi, dall’orchestra di un certo mitico "Maestro Cinico Angelini" [famoso dal ‘39 ai primi Festival di Sanremo, significativo esponente di quello stile melodico detto "all’italiana"] a Brian Auger e i suoi Trinity, da Fred Bongusto ai New Trolls, e via dicendo per molto e molto ancora), ma poi, a causa della più recente e invadente disco-sporogenesi, nel corso degli anni ‘90 ristrutturato e diversamente funzionalizzato così da poter accogliere esposizioni d’arte figurativa, serate di poesia e premi di narrativa, o fare da splendida cornice, con tutto il suo immediato e suggestivo contesto marinaro, a serali concerti di musica "seria" o jazz (ah, se ripenso alle paganissime e trasgressive "feste della Primavera" che, giovani liceali o esuberanti goliardi, vi organizzavamo durante gli indimenticabili anni ‘70 e ‘80 !), in quel dancing, dicevo, quasi tutte le sere, durante l’inverno, quando il locale restava chiuso sprangato per mesi, magicamente quiescente nella malinconica taciturnità della vasta pineta, quattro giovani si riunivano a fare musica. Non per professione (ciascuno di loro svolgeva un diverso mestiere), anche se qualche matinée o soirée sicuramente andavano facendosela. Quella era soprattutto una sospirata parentesi ricreativa dopo una giornata di lavoro, magari duro e pericoloso (ricordo bene che il chitarrista "solista" mancava di un dito, o forse due, alla mano sinistra; oggi mi fa pensare al grande Reinhardt).

Si chiamavano I Gabbiani. Quale nome più adatto, anche se non troppo originale, ad un complessino solo strumentale (un po’ alla Shadows: chitarra solista, basso, chitarra accompagnamento, batteria) in una città di mare…

Qualche anno più tardi, identica denominazione veniva attribuita, ma con diversa fortuna, ad un gruppo costituito a Mazara del Vallo (altra nota località acquatica) da Nico Tirone (l’ho scoperto proprio quest’estate, quando per tornare a casa dalla spiaggia dovevo necessariamente passare davanti a quella che alcuni amici mi hanno indicato essere la sua abitazione, proprio di fronte al mare).

Forse qualcuno ricorderà la canzone Parole: su un tranquillo "giro di Do" cavalcò per mesi le hit parade del suo tempo.

Che musica suonavano, invece, i miei Gabbiani? Apache, Bombora, Ebb Tide (chissà se questo titolo è esatto?) e Mare incantato (così lo chiamavano tra loro e così ho fatto anch’io, per sempre).

Bene: durante parecchie di queste loro session, assieme a due miei "colleghi" (tra cui quel bassista che scoprii essere mancino) mi introducevo non so come nel fiabesco edificio liberty, fino a raggiungere la stanza, nebbiosa dalla caligine delle innumerevoli bionde fumate (atmosfera "adulta" per me che avevo solo 12 anni), in cui i quattro musicisti provavano. Loro per un po’ ci squadravano con aria vagamente interrogativa, poi, senza pensare più a nulla, continuavano a suonare.

Noi restavamo lì, letteralmente stregati dalla voglia di "capire", dimentichi dell’orologio, ad ascoltare per tutto il tempo che si poteva. Fattasi una certa ora, dovevamo purtroppo tornarcene a casa, altrimenti i nostri genitori ci avrebbero rallegrati con ben altra musica.

Credo di aver imparato un mondo di cose circa il giusto approccio al mio strumento da quel "chitarrista senza dita" di cui tutto ricordo, tranne il nome.

 

15-09-2003

1. La corda G

G come "cerniera" (collocazione centrale, baricentro), chiave di volta, riferimento gravitazionale dell’intero sistema.

Sarebbe proprio il caso di decantare le ineffabili qualità di questa terza corda, soprattutto se si tratta di una Ernie Ball, calibro 20, rivestita, a detta del mio rivenditore definitivamente sparita dalla circolazione (assieme a tutta la muta 10/50 che la conteneva) tra la mia più grande disperazione: chissà se riuscirò mai a rimpiazzarla adeguatamente?

Approfitto: se qualcuno volesse segnalarmene un qualche eventuale anche se improbabile residuo, invenduto fondo di magazzino, ovunque esso si trovi, gliene sarei infinitamente grato. Fino ad allora, comunque, tarderò il più possibile a montare l’ultima muta di questo tipo ancora in mio possesso.

 

2. Ancora sull’action

Per la sistemazione dell’action in rapporto alla speciale concezione del suono di ciascuno, a ben poco possono servire i liutai: è tutta questione di personale inspiration-perspiration. Il chitarrista deve farsi in quattro, e rischiare di gettar via ben più di cinque capotasti (soprattutto superiori) nell’inesausta ed estenuante ricerca della perfezione, tra cacciaviti, limette, attak e corde che cedono.

Una tantum ha ragione chi ci ricorda che "il meglio è nemico del bene".

Quindi: non farsi prendere dall’eccessiva frenesia, e sapersi dare uno STOP al momento giusto.

Dura arte, che mai appresi…

 

16-09-2003

Il capotasto 0

Il problema dell’action va risolto essenzialmente al livello del capotasto 0, una volta sistemato quello inferiore (che, per altro, nella maggior parte delle chitarre in commercio può essere agevolmente e costantemente aggiustato, calibrato e corretto per via puramente meccanica, tramite sistemi più o meno sofisticati, in rapporto al fatto che le corde friggano o meno sulla tastiera a mano a mano che si procede verso i registri più acuti).

Sarebbe forse un po’ lungo e noioso raccontare tutte le mie vicissitudini al riguardo: quando mi va bene e quando mi va male.

In ogni caso, ci si rende conto che la "perfezione" è solo una realtà virtuale, tendenziale, in progress.

 

 

18-09-2003

 

Est modus in rebus

 

Vi è una misura in tutte le cose; ognuna ha un proprio limite, al di qua e al di là del quale non è giusto, opportuno, bene, conveniente andare (Orazio, Satire). E ancora: "Il meglio è nemico del bene".

Tendere morbosamente verso un’action troppo morbida certamente non è cosa giusta.

Al polo opposto, e altrettanto radicalmente, qualcuno preferisce avere delle corde visibilmente distanziate dal piano della tastiera, così da poter avvertire un forte coinvolgimento fisico delle dita nella produzione del suono, il quale ovviamente sarà di un certo tipo.

Quanto a me, perseguo da sempre un’action ragionevolmente morbida su tutta la tastiera: ritengo sia bene, infatti, che il carico di pressione esercitato dalle dita (e quindi il tempo di risposta delle corde) si trovi ad essere il medesimo lungo l’intero percorso.

L’inevitabile, per quanto lieve, incremento di distanza delle corde dalla tastiera (soprattuto oltre il 10° capotasto) sarà ovviamente compensato dall’ammorbidimento dell’arco, a mano a mano che ci si allontanerà dal capotasto 0, dove, per ovvie ragioni meccaniche, la rigidità delle corde sarà massima, ma, fortunatamente, l’action minima.

Mi interessa, infatti, quanto accade al livello del I capotasto, quello in cui ottengo, per intenderci, le note FA-DO-LAb-MIb-SIb-FA: vi pongo l’indice a barré e, dopo essermi accertato che tutte le corde suonino perfettamente senza che su di esse io debba esercitare alcuna particolare pressione, cerco di avvertire se l’energia da me spesa risulti distribuita in eguale misura su ciascuna corda, cioè, tento di "sentire" se qualcuna di esse mi richiede un impegno speciale per fare ciò che dovrebbe.

In caso affermativo, tale "dettaglio" andrà a ripercuotersi fastidiosamente lungo l’intera tastiera. È in gioco una corda "egocentrica", e il problema va immediatamente risolto incidendo progressivamente, ma per dosi realmente infinitesimali (ogni volta pazientemente ricollocando la corda in sede, e suonandola con decisione dopo averla portata alla giusta tensione, cosa che potrebbe alla fine provocarne, un tira e molla dopo l’altro e nonostante tutte le precauzioni, cioè pur evitando bruschi rilasci o trazioni, il cedimento), il relativo abitacolo al capotasto 0.

Ovviamente, tutto ciò va fatto sempre controllando che le sei corde non "sentano", pizzicate a vuoto con energia commisurata al proprio particolare stile esecutivo/performativo, il primo capotasto metallico, pur avvicinandovisi pericolosamente.

 

Un’altra questione per me essenziale concerne la curvatura del manico.

Se la chitarra si dimostra ottima, come lo è quella che da alcuni anni vado suonando in modo esclusivo, allora fa troppo spesso capolino una non poco insidiosa tentazione (a cui tuttavia sono ormai in grado di resistere, dopo avere sperimentato fino in fondo la cosa in un’occasione, per pura curiosità scientifica): volerne trarre il massimo comfort, irrigidendo l’anima metallica fino a far sì che le corde, sull’intero arco della tastiera, non ne distino che un’impercettibile frazione di millimetro.

In apparenza, ciò dovrebbe consentire di suonare senza alcuno sforzo e al meglio dell’espressività.

 

Niente di più falso:

 

le corde si appiattiscono sul legno e non si fanno più sentire (sembra quasi di avere sotto una di quelle esecrabili "senza corde" sintetiche che qualche tempo fa Metheny si trovò a dover suonare, tra inconvenienti tecnici inenarrabili):

 

Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!

Tre volte dietro a lei le mani avvinsi,

e tante mi tornai con esse al petto.

 

(La Divina Commedia, Purgatorio, Canto II, 79-81) ;

 

sembrano più rigide, indeformabili barre di metallo, dal suono freddo e monotono;

alle dita non viene più richiesto il minimo impegno "pressorio", e ciò annulla il piacere/senso del contatto materico con lo strumento (di cui le corde sono, in un certo senso, il principale elemento medianico);

le dinamiche necessariamente si annullano, e ne risente il piano dell’espressività a livello esecutivo;

tutto sfugge, a causa dell’eccessiva "facilità", e molte note vengano "mangiate". Ciò è massimamente evidente durante le esecuzioni più veloci, dal momento che in questo caso i tempi di anticipo potrebbero superare il valore stesso delle note: facilmente immaginabili i risultati;

nonostante ciò, si è macchinalmente indotti a "correre", e quindi ad enfatizzare l’inconveniente di cui sopra;

viene sconvolta la relazione temporale tra dita della mano sinistra e azioni del plettro (un po’ come se, in un organo a canne, venisse azzerato il significativo delay notoriamente esistente tra le operazioni compiute alla tastiera e i suoni emessi dalle canne, fattore che lo strumentista dà, com’è noto, per scontato e su cui, ovviamente, adegua la propria performance), con grave danno per ogni utile sincronismo, o violazione del medesimo: ad es., diventa problematico gestire tanto gli anticipi quanto i ritardi.

 

Dunque occorrerà saper trovare il giusto equilibrio tra guadagni e perdite, entrate e uscite, in una sorta di partita doppia che possibilmente non chiuda i conti in passivo.

Naturalmente, molto dipenderà dai "parametri" (cfr. "Narrative Guitar" VS Tecno-automatismi, 8.13) che ciascuno avrà eletto a fondamento del proprio stile.

Il mio appare piuttosto attento ai valori materici: la corda va "sentita", anche se contraddistinta da una certa pastosa morbidezza.

 

19-09-2003, ore 18,25

Suonare in "punta di penna" Le temps jadis (mia recente composizione).

Esprimere (comunicare?) mediante frangibili suoni la struggente tenerezza del "nominare" ciò che non tornerà mai più (mio padre, i miei cari, "le temps flottant de l’enfance" [Daniel Pennac, http://it.wikipedia.com/wiki.cgi?Daniel_Pennac], le trascorse avventure, i momenti delicati, gli affetti, le ingenue emozioni, i magici "inizi", i luoghi amati, gli oggetti vagheggiati…):

 

Nostalgia,

che pure tradurrei

"dolore del ritorno",

se almeno una rotta

sapessi…

Voi, dove noi non siamo;

noi

(sorpresi dalle tenere

istantanee

d’un tempo stregato),

dove più non siete.

Ma in calce

al groviglio

delle smarrite coincidenze,

cento candeline

feriscono

ancora:

sinché

inesausti

sussistono

i sogni…

1/4 = 100

21-09-2003, ore 22,37

1.

Gli sbagli si pagano, quando si è accecati dalla brama di ottenere sempre di più dal fatale capotasto 0!

Nuovo ponticello, altro materiale, altro suono, nuovi problemi.

Fortunatamente, però, si finisce per adattarcisi, un po’ come accade a me, direi periodicamente, con questa chitarra.

Acquistandola, compresi immediatamente che tra le mani avevo qualcosa di insolito e "remoto", quasi "alieno", considerate le più abituali mie frequentazioni. A cominciare da quel suo particolarissimo (ma straordinario!) suono raddoppiato: come se a tempo pieno vi lavorasse un chorus.

Ovviamente, ne erano responsabili i materiali che la costituivano, indiscutibilmente dozzinali (compensato da ordinaria falegnameria domestica, ecc.), e parlo al passato perché quegli stessi legni (persino il loro odore, un tempo acre e sgradevole, si è, nel giro di pochi anni, transustanziato in un dolce e attraente aroma di vaniglia, un po’ come quello che oggi, dopo la lenta fermentazione che negli anni conduce a maturazione la migliore cellulosa, promana da certi nostri libri di quarant’anni fa) si son venuti modificando, e l’azione che il tempo vi ha esercitato può francamente essere definita "impagabile" (il tempo è danaro, ma il danaro non è tempo: non potrebbe mai "pagare" un simile "prodigio").

Ora, al freddo, al caldo, al sole o alla pioggia, alla salsedine o all’umidità del lago (non le risparmio proprio nulla!), la mia piccola clochard continua a vivere ed "evolversi", magnificamente tollerando, oltre a tutto ciò, ogni instancabile modifica che io stesso vado apportandovi.

Naturalmente, devo poi adattarmi ai risultati che ottengo, imparare a convivere con essi, almeno durante i primi tempi, non potendo immediatamente condurre determinati valori alla loro condizione ottimale, dal momento che ho bisogno di comprenderne prima l’esatta entità, il "senso" per me.

Dal fatto che uno strumento non cessi di trasformarsi in qualche modo durante l’intero arco della propria esistenza consegue che persino l’eseguirvi sempre un medesimo brano può davvero costituire un’esperienza assolutamente unica, irriducibile alle altre. È così che personalmente vado scoprendo qualcosa di nuovo ogni giorno: sulla mia chitarra, su di me…

 

2.

La horn conception è, in fondo, una "filosofia": valorizza il momento della formazione del suono anziché il fraseggio, il come anziché il che cosa, le modalità concrete, fisiche della narrazione, piuttosto che il puro e semplice suo contenuto, non la frigida "trama" sintattica, bensì il piano dell’espressione con tutti i suoi "parametri superstiti" (cfr. "Narrative Guitar" VS Tecno-automatismi, 8.13), non il racconto, ma il modo di raccontare.

Ne consegue un rapporto esclusivo con un preciso "strumento dell’espressione", avvertito, dopo qualche tempo di reciproco adattamento-affiatamento (e crescita), esattamente come una protesi di sé, difficilmente rimpiazzabile. Un po’ come avviene nel nostro rapporto con determinate persone, praticamente insostituibili.

Ma com’è possibile che Pat Metheny riesca a suonare con lo stesso identico risultato tutte le chitarre in cui per puro caso si imbatte lungo la propria strada, in questo o quel club, traendone infallibilmente quel suo unico e inconfondibile sound (cfr. Luigi Viva, Pat Metheny, Franco Muzzio Editore, 1989, p. 89)? Sarà poi vero…?

 

 

22-09-2003

1.

Oggi mi sono svegliato con un pensiero (e la corrispondente emozione di benessere/eccitazione intellettuale): su di me non ho mai lavorato tanto come ora.

Più non mi opprimono esami o programmi di alcun genere (mi piacerebbe poter dire, con Montale, che per me è finito il tempo delle coincidenze e gli scorni "di chi crede che la realtà sia quella che si vede"), e penso possa essere esattamente questo lasciarsi andare "ascoltandosi", questo poter finalmente contemplare tutto con calma e in assoluta libertà a maturare umanamente, e quindi anche musicalmente, le persone.

È davvero incredibile la quantità di "obiettivi" che si possono conseguire quando non si è più travolti dall’indomabile smania (o impellente necessità) di raggiungerli, ma si può godere del tempo (e della fortuna) di lasciarli arrivare e sedimentare in tutta serenità, per farli propri al momento giusto.

Non è però questione di sola quantità. So bene che l’essere rapiti nell’ebbro vortice delle non-esperienze che maledettamente contrassegnano questi recenti strafottuti nostri tempi non è certo conoscersi, individuare il proprio "posto nel mondo", essere felici.

È alla Qualità che si deve soprattutto puntare: un selezionato numero di autentiche "avventure" appassionatamente vissute e senza fretta assimilate (slow food).

2.

La mia "coreana di serie" ama le corde zigrinate, e non vuol saperne di quelle lisce.

In effetti, così riesco ad avere un rapporto più diretto con la tastiera, e dunque un ottimale controllo sull’espressività determinata dal gioco delle corde, che riesco a "mordere" meglio.

Con altre chitarre questo genere di relazione non mi è possibile, o non allo stesso modo, e allora preferisco ogni volta tornare (home sweet home!) alla mia "maneggevole piccola" (sebbene il suo diapason esuberi decisamente la norma), capace di sonorità realmente indefinibili, ineffabilmente zen, e soprattutto scopertamente, sinceramente materiche.

 

24-09-2003

Che cosa vuol dire, per un "jazzista", frequentare qualche meeting dell’ADGPA?

Un po’ si cambia.

In meglio.

Si diviene… più elastici.

Il "jazz feelin’ " (quel particolare modo di pronunciare ogni coppia di crome), però, resta indelebile, come un marchio a fuoco.

 

 

25-09-2003

 

Perché occuparsi per così tanto tempo di un’unica composizione?

Solo per ridurre progressivamente l’aggressiva grossolanità di talune soluzioni armonico-melodiche o perfezionarne l’esecuzione, nel senso della "pulizia" e/o dell’espressività?

Ho lavorato per due lunghi mesi a Le temps jadis, vivendola e "bevendola" giorno dopo giorno…

 

 

27-09-2003

 

1.

Ricerca della perfetta eliminazione di ogni sorta di "noise" in fase di esecuzione.

"Rumore" nel senso che tale termine assume in ambito semiologico, quale "disturbo" non intenzionale della "comunicazione" (emissione-trasmissione).

Il suono appare allora pronunciato nel "silenzio" di ogni altra componente acusticamente definibile.

Ed è uno degli indici della Consapevolezza, come la linea perfettamente dritta, tracciata a mano libera, ma con limpida decisione, dal giovane monaco il cui spirito sia finalmente pronto, dopo anni di severa applicazione, al Grande Insegnamento.

2.

La "durata" delle note: il lucido e diretto dominio, mentale e muscolare, del loro "valore".

3.

Non più un suono "chitarristico".

Non più la "chitarrina" del noto e vuoto cliché (lo stesso che associa gli spaghetti al mandolino).

 

 

28-09-2003

 

1.

Mi domando come mai in questi ultimi tempi mi accada di ascoltare sempre meno jazz, soprattutto quello "impegnato", e sempre più musica leggera, "cantata", talora persino easy, per quanto di buona qualità (un esempio: Phil Collins)?

Un amico mi ha rassicurato: non serve a nulla chiedersi come mai tutto questo accada. Basta "prenderne atto". Lo sapevo: la mia domanda era puramente retorica.

In effetti, questo stesso mio diario non è che un semplice constatare, giorno dopo giorno, o quasi, ciò che in relazione ad un determinato oggetto (la musica, la chitarra) mi accade, e ho scelto di farlo "narrativamente", poiché riguardo alle "avventure" (così Roland Barthes denomina ogni evento "inclassable" che semplicemente ci "av-viene") non ha senso trattare, ma solo narrare (Eco), forse tacere (Wittgenstein): meglio ancora, ascoltare (io).

2.

Sempre quello stesso amico mi si è detto profondamente irritato dal fatto che un termine come "materico" (che io pure utilizzo di frequente) venga tanto facilmente abusato, soprattutto nel campo dell’arte pittorico-plastica.

Gli ho spiegato che personalmente ne faccio un uso assai particolare, e a mio avviso necessario, per poter adeguatamente "visualizzare" quel singolare rapporto che io intrattengo con il mio strumento, o ad esempio per chiarire in che cosa possa consistere, secondo me, la specifica e inconfondibile relazione che si può avere, ad esempio, con una Yamaha, con una Gibson, con una Epiphone, con un’Ibanez, con una Fender e via dicendo.

3.

Quanta mia musica ho suonato durante questi ultimi undici anni…!

Eppure, se torno ad ascoltarla (come, ad esempio, mi accade di recente, per riscoprirvi qualche composizione originale da inserire in un CD collettivo), provo, non proprio dell’imbarazzo, ma sicuramente una velata indifferenza, come se tutte quelle cose non mi riguardassero più.

Di fatto, in un certo senso, non costituiscono il mio presente: hanno "coinciso" con me, in qualche momento della mia esistenza, per divenire poi "terreno" su cui sono andate via via maturando ulteriori e più avanzate "postazioni", e naturalmente anche il presente diario, che in altri tempi neppure lontanamente avrei pensato di scrivere. Così è la vita…

A volte, invece, torno con sentimenti migliori alle mie vecchie cose: con della nostalgia, e un po’ di tenerezza, per non perdere il contatto con un Passato che in realtà mai ho rinnegato, perfettamente ricordo e sempre più oggi riconosco quale fondamento della mia Identità, attraverso i Mutamenti, sebbene unica realtà resti, in ogni caso, il Presente, con tutti i suoi limiti e magagne.

Di fatto, io sono esattamente quel che ora riesco a fare; esisto solo in ciò che in questo attimo di esistenza mi impegna, mi interessa, mi turba, mi dà o non mi dà pace, mi lascia senza fiato, mi piace o mi dispiace, pur senza mai dimenticare tutto l’amore, la passione, l’ingenua felicità, la malinconica e solitaria sofferenza che l’intera mia piccola storia, in ciascuno dei suoi momenti, è costata.

E so che, suonando o riascoltando questa cosa dolcissima, Le temps jadis (cfr. la partitura al giorno 19-09-2003, ore 18,25), composta lo scorso luglio ma solo da poco registrata, sto esattamente rendendo onore e giustizia a tutti coloro che resteranno per sempre "vivi" nel mio cuore…

 

29-10-2003

1.1

Qualche anno fa, al termine di uno dei miei concerti assieme al Gruppo Musicale Effatà (Sarnico, BG), un giovane sacerdote volle complimentarsi per aver sentito una chitarra "parlare e raccontare" durante tutta la serata. Si riferiva ai lirici "ponti" che in totale solitudine avevo eseguito a connessione dei diversi momenti dello spettacolo.

Al termine del seminario da me tenuto a Sarzana il 24 maggio 2003 (X Convention ADGPA), qualcuno tra i presenti definì le mie esecuzioni "suoni dall’aldilà".

Questo genere di "complimenti" possono davvero gratificare e "sostenere" moralmente ogni musicista che stia battendo piste inedite alla ricerca di se stesso.

Consiglierei, a tale riguardo, la lettura de La strada che non andava in nessun posto (Gianni Rodari, Favole al telefono, Einaudi).

Il fine è l’autenticità: la conquista (ovvero semplice "presa di Coscienza") di uno stile necessariamente inconfondibile.

2.

La melodia come "limite" imposto all’armonia e viceversa.

Penso a due mie composizioni: Monologue, in cui una pura melodia viaggia per i fatti suoi senza alcun armonico rimpianto, e Scheveningen, dove invece è la sequenza degli accordi a delineare, per quanto in sua totale absentia, una linea melodica oltremodo appagante.

 

3.

Ieri sera ho suonato in concerto con un gruppo gospel.

In casi del genere, non è questione di sottile ricerca del Sé. A parte qualche "assolo" su sequenze armoniche fin troppo definite e, ahimè, limitate a poche battute, si tratta soprattutto di fare ritmo, accompagnando voci e strumenti a decise pennate.

Ma che cosa accade al plettro? Viene affilato come un coltello alla mola. A fine spettacolo ha bordi così taglienti e una sonorità tanto ghiaccia e vuota che potrebbe andar bene solo per delle strimpellate ebbre, da gita scolastica sulla via del ritorno.

Lo si può "rieducare", però. Il disastro non è disperatamente irreversibile. Basterà strofinarlo per due o tre secondi sui propri jeans e suonarvi qualcosa di più musicale (una delicata ballad, un’improvvisazione garbata e ben "toccata", ecc.) per un paio di giorni, e tutto tornerà come prima: sound vellutato e avvolgente, meditativo e profondo, introspettivo e toccante.

Quante insospettabili cose in un colorato ed umile triangolino di fragile plastica…!

 

 

30-09-2003

Ma dove tende il "viaggio" che ho intrapreso?

Forse ad approcci inediti, certamente ad un singolare modo di "suonare"…

Ciò può rendere appassionato e gratificante il rapporto che con il mio strumento intrattengo, anche se in un primo momento esso mi ha spaventato, e tuttora un po’ mi rende inquieto. Ma credo che questa sia l’emozione costitutiva di ogni vera ricerca o azzardo, dove si può guadagnare tutto come anche perderlo. Dove, per quanto vengano presupposte alcune oggettive capacità coltivate fino al conseguimento di una rilevante dose di abilità tecnica e una compiuta serie di competenze teorico-musicali, risultano tuttavia nettamente trascese cose come la "correttezza" o funzionalità della diteggiatura, il rispetto di canoni armonici, tempi, ritmi, durate, stereotipi, velocità, e conta unicamente l’espressività, in tutte le sue determinazioni: ogni cosa avviene da sé, con semplice naturalezza.

Forse, a tratti, sarà possibile intravedervi qualcosa come il "Vero Io", che sarà funzionale, musicale, armonico, ritmico, tecnico, dinamico, espressivo o comunicativo esattamente nella misura in cui vorrà esserlo.

È in gioco, evidentemente, un piano ben "differente" da quello in cui, con la presunzione tipica dell’ignoranza, spadroneggiano i giudizi di valore e le classifiche.

Attorno ai miei venticinque anni tentavo, assieme ad un paio di amici (un percussionista e un sassofonista), di dare concretezza ad un certo progetto, velatamente surrealista: produrre musica "automatica", "lasciarsi suonare".

Gli esiti furono in qualche modo interessanti, ma comprendemmo comunque che per noi quello "non era il momento": "bisogna che lo spirito sia maturo" (Thich Nhat Hanh, Introduzione allo zen, Sonzogno, 1974, p. 43 e segg.).

Dopo un paio di session, lasciammo perdere.

Semplicemente rimandammo, o fu qualcosa di più?

 

Il mio io di molto tempo fa,

non-esistente in natura;

nessun luogo dove andare quando si è morti,

assolutamente nulla.

 

Certo, in quel momento non avevamo ancora sufficientemente chiaro che per imbarcarsi degnamente alla volta di un simile destino davvero non basta aver suonato onorevolmente per oltre quindici anni o essersi diplomati a pieni voti presso un buon conservatorio.

Non c’è imbarco e non c’è scalo, nessuna partenza o meta: solo il semplice "conseguire", quando più non lo si cerca tra illusorie e vane "metodologie" (cfr., in A. Watts, La via dello zen, Feltrinelli, 1979, 3ª ed., l’intero capitolo su "Lo za-zen e il koan", pp. 166-185), il "suono di una sola mano":

 

Una mente che cerchi altrove

il Budda,

è stoltezza

nel vero centro della stoltezza.

 

Anche Jonathan, poco prima di dissolversi per sempre nell’ "impalpabile aria":

 

"Tu non hai più bisogno di me. Devi solo seguitare a conoscere meglio te stesso, ogni giorno un pochino di più, trovare il vero gabbiano Fletcher Lynd. È lui il tuo maestro. È lui, che tu devi capire. È in lui che tu devi esercitarti: a esser lui."

 

(R. Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston, Biblioteca Universale Rizzoli, 47ª ed., p. 102)

 

Per contatti: gbguit@libero.it