Gianni Bergamaschi
"Narrative music" / "narrative guitar"
1.
Quante volte ci è capitato di sentir dire o piuttosto leggere, non di rado persino sulle pagine di riviste musicali "specializzate", di quel certo chitarrista autentico e sensibile "poeta" del proprio strumento, ovvero ineguagliabile "narratore", "tessitore" di mirabili "trame" o fascinose "storie", scopritore e descrittore di inediti e ardui mondi espressivi, o ancora impareggiabile "pittore" di paesaggi densi di profumi, colori, e via dicendo, a meno che le sue tinte non abbiano la delicata, impressionistica ed evanescente grazia del pastello, ovvero non propongano l’intensa, gastronomica saporosità delle più "mediterranee alchimie", sempre ammesso che non si stia parlando di musica concept (dove, naturalmente, prevalgono strategie retoriche a carattere espositivo-argomentativo)?
Si tratta solo di comprensibilissime e accettabili metafore, dal momento che "quaggiù" tutto si riporta, sia pure non esattamente sul piano di esoteriche analogie, o misterioso-magiche "corrispondenze" (almeno per me, che credo appena alla naturale poesia che il mondo stesso, malgrado tutto, ancora emana, o ai semplici e solari "incantesimi" che ciascuno di noi può evocare, semplicemente accettando di tuffarsi, e pescare, dentro quell’ineffabile scrigno di percezioni, esperienze, emozioni, sentimenti e idee che egli stesso è), o davvero si può, ad esempio, narrare una storia attraverso la musica, e nel nostro caso, utilizzando come medium "vocale" la chitarra?
È un problema al cui riguardo sarebbe bello riuscire a misurare in modo più sistematico e consapevole le potenzialità del nostro strumento, così per natura "randagio" nei mondi dell’immaginazione.
Quale può essere innanzitutto la "grammatica" di un simile obiettivo/esito espressivo?
La medesima che vale per il linguaggio in senso stretto?
Occorrerà poi esaltare la dimensione vocale, o addirittura orale dello strumento e dell’esecuzione (cfr. nei miei due precedenti scritti pubblicati in questo stesso sito, i passaggi sulla parlabilità)?
Afferma Jim Hall che, se il tema su cui si trova a dover improvvisare è un song, egli deve assolutamente conoscerne la lirica corrispondente. Ciò evidentemente presuppone un’assai stretta relazione tra la dimensione orale-verbale (lirica o affabulatoria) e quella squisitamente sonoro-musicale.
Prima di ogni altro discorso, però, credo vada fermamente ribadita una certa premessa (che condivido nel modo più assoluto): il più ricco approccio possibile al dato musicale deve necessariamente passare attraverso il mondo dei significati, anche e soprattutto se questi ultimi possono essere prodotti, negoziati, istituiti, riconosciuti e/o coscientizzati al livello di quella competenza comune di cui parla Gino Stefani (Insegnare la musica, Guaraldi, 1977), mediante pratiche di semiosi di base, e dunque non fermandosi alla sterile "decodifica" dell’oggetto sonoro-musicale consentita dal puro esercizio di codici colti, di cui sembrano essere a conoscenza unicamente il musicista compositore/esecutore o il critico, che del manufatto tendono a vedere, analizzare, godere e "oggettivamente" valutare appena gli aspetti strettamente tecnici e morfologico-sintattici.
2.
Perché una narrative music?
Innanzitutto, perché qualcosa di simile esiste già.
Si tratta solo di esplicitarne maggiormente, oltre che una sorta di "statuto", l’enorme potere liberatorio e l’interessantissima funzione poietico-culturale (cioè "produttrice di significato")
Riandando nel tempo appena un po’, ricorderemo certo lo straordinario esempio in tal senso offerto, con le sue Stagioni, autentico capolavoro d’arte narrativo-descrittiva, da un Vivaldi, a cui (G. Manzoni, Guida all’ascolto della musica sinfonica, Feltrinelli, 1977, p. 462):
non poteva non piacere la musica "a programma" (1): e qui la sua fantasia poteva davvero espandersi senza alcun freno, trascinando l’ascoltatore in voli meravigliosi attraverso un cielo ricco di luci, di ombre e di colori.
Leggiamo, dal sonetto esplicativo che introduce a L’autunno:
(Allegro)
Celebra il villanel con balli e canti
del felice raccolto il bel piacere,
e del liquor di Bacco accesi tanti
finiscono col sonno il lor godere.
(Adagio molto)
Fa ch’ognuno tralasci e balli e canti
l’aria che temperata dà piacere
e la stagion che invita tanti e tanti
d’un dolcissimo sonno al bel godere.
(Allegro)
I cacciator alla nov’alba a caccia
con corni, schioppi e cani escono fuore;
fugge la belva e seguono la traccia.
Già sbigottita e lassa al gran rumore
De’ schioppi e cani, ferita minaccia
languida di fuggir, ma oppressa muore.
Procedendo quindi a grandi passi verso tempi a noi più vicini, si può realmente provare l’imbarazzo della scelta. Di musicisti o gruppi musicali che nel più recente ‘900 abbiano trattato il materiale sonoro in senso narrativo ve ne sono stati davvero tanti.
Volendone ricordare appena alcuni, tra quelli che hanno lasciato un più serio ed indelebile "segno" nella cultura musicale del nostro tempo (omettendo, per non essere banali, i grandissimi Beatles), tornano alla mente i Procol Harum (A salty dog, 1969, che fin dalla cover lascia immaginare distese ed affascinanti fiabe marine), i King Crimson (in Lizard, 1970, viene narrata la tremenda, toccante e suggestiva leggenda del principe Rupert; in Islands, 1971, Sailor’s tale: intro di chitarra filtrata al "Peter’s Pedal" - solo al sax di Mel Collins, che arrischia un dialogo con Robert Fripp - break - solo di chitarra trattata su tappeti mellotronici - finale con corni di navi che salpano tra sepolcrali armonie e ritmi incalzanti - caotico epilogo con sola chitarra trattata), i Jethro Tull (Aqualung, 1971), gli Yes (Close to the edge, 1972; Tales from topographic oceans, 1974), Robert Wyatt (Ruth is stranger than Richard, 1975), Wayne Shorter (che con i Weather Report, ma più esattamente con i soli tappeti elettronico/acustici di "Sua Eminenza" Joe Zawinul, incise un’ammaliante Five short stories, in un vinile che purtroppo ora non ricordo e non ho più con me), Pat Metheny (Secret story, 1992, misteriosa vicenda il cui esordio lo stesso Pat ha con esattezza voluto situare nel tempo e nello spazio, durante un’intervista, rivelando persino il "vero" ordine di "lettura": all’incontrario), Jim Hall (Pancho, in Subsequently, 1992) ed altri ancora.
Per tornare al poco sopra citato Five short stories (Shorter vi intrecciava al sassofono, sfruttando con meravigliosa disinvoltura le coloratissime aperture offerte dal cangiante tappeto sonoro tessuto da un ineffabile Zawinul, le favole più toccanti e meravigliose, felici o immensamente tristi), ricordo che in quel tempo frequentavo da poco l’università e mi appassionavo alla poesia tanto da provarmi io stesso in qualche sghembo verso (quanti di noi non lo hanno fatto durante la propria adolescenza …).
Ora mi ritrovo il tutto tra le mani e rileggo ciò che allora scrissi con quella stessa indulgente tenerezza con cui vorrei mi si perdonasse la seguente lirica, ispirata esattamente ad una delle cinque "brevi storie" di Shorter, e racconto essa stessa:
Le ultime tenebre si diradarono.
Oltre le nubi, la prima luce carica di speranza.
Salpammo,
e gli affetti abbandonati ci strinsero il cuore.
Il battello faceva vela
verso terre ignote della nostra mente.
Dolcemente
si andava su per onde cullanti.
Sazi di osservare la vita da un sol punto di vista,
eravamo sbattuti nel mare della promiscuità.
Ovunque, segni da interpretare in mille altri modi.
Non cercavamo l’anello mancante
né la cifra risolutiva;
non la parola lucifera.
Alla ricerca della non-chiave, il nostro viaggio fu disperato.
Tentammo di strappare
ciò che da tempo impediva ai segni di essere puri e neutrali.
Godemmo così del ruscello,
dei gabbiani, dei pascoli e
delle sirene,
e forse udimmo la stessa voce
che lo scimmione nella sua alba sentì:
suonato da una semplice canna
denotante vicinanza - locomotiva transiberiana,
il tema si fece stretta porta di ammiccanti paradisi,
perduti dentro quella selva verso cui
ora invano tendo l’orecchio.
Accelerare il passo non servì
e la sensazione disparve.
3.
Quanto alle mie personali esperienze musicali, ve ne sono un paio che possono in qualche modo contribuire quanto basta a chiarire la mia tesi.
Potrei iniziare dalle cose che ho scritto per il CD Sunny (da me inciso nel 1995 assieme al percussionista Gaspare Bonafede), dove molti brani vanno decisamente "letti" come veri e propri racconti, a cominciare dalla stessa composizione che dà il titolo all’album: il vario ma regolare susseguirsi di fasi tensive e distensive, nel costante gioco dialettico tramato tra chitarre e "oggettistica" meravigliosamente inedita, vi delinea infatti le alterne sequenze di una storia che drammaticamente si dipana oltre i sette minuti. Per comprenderla appieno, attimo dopo attimo, può essere utile quanto osserva Bruner (La cultura dell’educazione, Feltrinelli, 1997, p. 107):
Quello che fa girare la storia e la rende degna di essere raccontata è la presenza di una crisi: qualcosa che non quadra fra attori, azioni, obiettivi, situazioni e mezzi. […] La narrazione comincia con un prologo esplicito o implicito che stabilisce la normalità o la legittimità delle sue circostanze iniziali […]. L’azione poi si sviluppa portando a una rottura, a una violazione delle aspettative legittime. Quello che viene dopo è il ripristino della legittimità iniziale o un sovvertimento dello stato di cose, che crea un nuovo ordine di legittimità.
Che dire poi di una composizione struggente come Il pleut dans mon coeur (terza, nel CD in questione), ovattato "paesaggio interiore" di infinita e nobile tristezza, appena sfiorato da un sussurrato e tenerissimo flash back?
Si tratta, in realtà, di una pausa descrittivo-meditativa. Al tempo della narrazione viene imposta una battuta d’arresto: ce n’era bisogno.
Per quanto assolutamente indispensabile affinché possa esservi una storia, la descrizione, scrive bene G. Genette (Frontiere del racconto, in AA.VV., L’analisi del racconto, Studi Bompiani, 1980), è tuttavia "ancilla narrationis, schiava sempre necessaria, ma sempre sottomessa, e mai emancipata" (p. 280). Essa "si attarda su oggetti o esseri […] sembra sospendere il corso del tempo e contribuisce a spiegare il racconto nello spazio" (p. 282).
Tra i quattro stati d’animo specifici degli haiku, "sabi", "wabi", "yugen" e "aware", è quest’ultimo ad esprimere meglio di ogni altro quella speciale condizione emotiva che cercai di "descrivere" suonando Il pleut dans mon coeur.
Aware "non è completa afflizione, e non è del tutto nostalgia nel comune senso di vivo desiderio che ritorni un passato assai caro. Aware è la eco di ciò che è passato e di ciò che fu amato, e dà ai ricordi la risonanza che una grande cattedrale dà ad un coro, di modo che senza quest’eco essi parrebbero più miseri" (A. Watts, La via dello zen, Feltrinelli, 1979, p. 199):
Nessuno vive alla Barriera di Fuha;
la tettoia di legno è crollata;
tutto quel che rimane
è il vento d’autunno.
Ci sono poi delle musiche che nascono proprio perché ci si sente in un certo senso "costretti" a raccontare una determinata storia.
È accaduto anche a me con il brano Mi Señor, eseguito in totale solitudine alla chitarra acustica per il CD Navidad en Verano (1999) del Gruppo Musicale Effatà di Sarnico (BG). Il relativo libretto recava, tra le svariate sue paginette, la seguente mia prosa introduttiva, che era poi il racconto della singolare esperienza che qualche tempo prima aveva fatto scattare in me una sorta di conversione, e dunque quella "trasformazione" (rispetto ad una situazione iniziale) che è fondamentale nella struttura di ogni narrazione dinamica:
Tempo fa, mentre attraversavo un vicino Paese straniero, fui "vittima" di un drammatico inconveniente automobilistico che avrebbe potuto trasformarsi in un’autentica tragedia, se, al momento giusto, Qualcuno non avesse ristabilito un Ordine a bella posta turbato.
Durante le interminabili giornate successivamente trascorse nell’unico albergo di quel borgo sperduto ai piedi dei Pirenei, in estenuante attesa dei pezzi di ricambio della mia auto, ebbi tutto il tempo di riflettere sulla durezza, ma anche sulla estrema dolcezza con cui il Grande Spirito aveva forse voluto mostrarmi l’incredibile miseria delle nostre orgogliose certezze di fronte al mare realmente imprevedibile, indecifrabile delle Sue illimitate Possibilità …
4.
Anche quella narrata da Roland Barthes a proposito delle Kreisleriana di Schumann è una "storia", stavolta impregnata di una "mistica sensitivo-sensuale":
[…] sento solo dei colpi: sento ciò che batte nel corpo, ciò che batte il corpo, o meglio: questo corpo che batte.
Ecco come sento il corpo di Schumann […]:
nella prima delle Kreisleriana, raggomitola e poi tesse,
nella seconda, si stira; e poi si risveglia: pizzica, picchia, rifulge cupo e fosco,
nella terza, si tende e si protende: aufgeregt,
nella quarta, parla, dichiara, qualcuno si dichiara,
nella quinta, striglia, scardina, freme, sale correndo, cantando, battendo,
nella sesta, dice, compita, il dire si trasporta fino a cantare,
nella settima, percuote, picchia,
nell’ottava, danza ma anche qui ricomincia a rombare, a batter colpi.
(Rasch, in AA.VV., Lingua discorso società, Pratiche Editrice, Parma, 1979, p. 267)
Non mi sembra possa esserci nulla di male ad ascoltare il "racconto musicale" eleggendo a medium il corpo, cioè immedesimandosi "con tutti i cinque e più sensi e i muscoli e i nervi in quel corpo sonoro che cova, fermenta, pullula, vibra, si muove, si erge, si slancia" (G. Stefani, Perché la musica, La Scuola, Brescia, 1979, p.13).
5.
Perché una narrative music?
Perché esiste una "psicologia narrativa", e da questa una "teoria dell’espressione-produzione-liberazione musicale" avrebbe parecchio da prendere.
Tra gli anni '70 ed '80 si è cominciato a puntare l'attenzione sulle narrazioni, sia quelle prodotte dal singolo individuo che quelle socialmente condivise. Si è così andata delineando un’accezione di narratività che ha finito con il costituire un "genere" di psicologia, la narrative psychology. Essa sembra svelare orizzonti assai promettenti, tanto in fatto di terapia quanto sul piano della comprensione del funzionamento della cultura e della mente umana (cfr. Arturo Mona, Ipnosi e narrazioni: il costruttivismo nella psicoterapia strategica, in Quale Psicologia, Giugno 2000, Franco Angeli, Roma; C. Neri, Gruppo, Borla, 1995; Paolo Cruciani, p.cruciani@pronet.it, e Sergio Stagnitta, stagnitta@funzionegamma.edu, Gruppo esperienziale e sogno, Internet; Nilde Maloni, http://www.tecnodid.it/new_tecno/concorsi/S/S_8.htm, su alcuni aspetti del pensiero di Postman e Bruner; Umberto Margiotta, La trama narrativa delle pratiche come trama di comunicazione tra saperi, http://helios.unive.it/pedagog/lezioni.htm; Narrazione, memoria autobiografica ed elaborazione ecc., http://www.dsc.unibo.it/dipartimento/people/lorenzetti/narrative.html#intro ).
La narrazione può in generale essere intesa come una tipologia discorsiva derivante da una particolare modalità di pensiero, quello narrativo, contrapposto al pensiero logico-scientifico. Mediante il primo si interpretano i fatti umani e si creano storie basate sull'intenzionalità e sulla soggettività, cioè non sulle "cause" che "spiegano", bensì sulle "ragioni" che permettono di "comprendere", stando al più autentico Bruner (op. cit., pp. 136 e 151-2).
Oltre a ciò, la narrazione è anche "pensiero su se stessi" e "scenario della coscienza": il Sé individuale emerge tanto dalle narrazioni sul vissuto personale proposte dall'individuo stesso (ricordi autobiografici, ecc.), quanto dai "racconti" che altri producono su di lui, entrambi successivamente elaborati in nuove forme di coscienza, ovvero di auto-interpretazione e auto-comprensione.
Da un punto di vista più strettamente terapeutico, la psicologia narrativa ha consentito di entrare in contatto con il sistema di significazione proprio della realtà del paziente, per poter "spiare" il mondo dalla sua particolare prospettiva.
Allo psicanalista interessa, così, non tanto la "verità storica" del passato di un paziente, quanto la "verità narrativa" da lui "riportata" in terapia. Successivamente, la reciproca collaborazione mira all’individuazione, da parte dello stesso soggetto in cura, di nuovi modi di parlare della propria vita, di raccontarla e "raccontarsela", divenendone in tal modo (stavolta sì!) l’ "artefice".
Il lavoro analitico, dunque, non appare più come una sorta di "ricostruzione archeologica del passato", o di "investigazione poliziesca" per far luce sui "fatti", trattandosi invece di un vero e proprio intervento trasformativo all'interno delle storie che il paziente ha costruito e costruisce circa se stesso, gli altri e il mondo.
Particolarmente interessante per noi può essere, a questo punto, ciò che Claudio Neri chiama "narrazione efficace", basata sulla capacità da parte dell’affabulatore di "identificare se stesso con il racconto e di comunicare, quindi, con straordinaria intensità di parole, in modo autentico e animato, le proprie emozioni e i propri pensieri" (Neri, op. cit., p.155). "Alcuni […] sono in grado di riferire ad esempio un sogno o un episodio della loro vita in modo tale che gli altri […] sono portati quasi spontaneamente ad associare le loro fantasie, sogni, pensieri" (Neri, op. cit., p.154).
6.
Perché una narrative music?
Perché credo possa e debba esistere una didattica narrativa.
Me ne sto occupando da qualche tempo e, francamente, sembra dare degli ottimi risultati, oltre a qualche bella soddisfazione.
Durante lo scorso anno scolastico, i miei alunni di seconda media hanno prodotto un certo numero di racconti (alcuni brevi, altri lunghissimi), ovviamente rispettando precise regole e tenendo conto di tutto un lavoro portato avanti, interdisciplinarmente, tra antologia, narrativa, storia, geografia, psicologia e studio dell’ambiente.
A fine maggio, hanno montato uno spettacolino (Storie a lume di candela) per leggerne espressivamente alcuni, adeguatamente valorizzati da una sfiziosissima e distesa cornice narrativo-teatrale (parte apprezzatissima dell’intero spettacolo) da loro stessi escogitata, agilmente "costruita" e fisicamente gestita in scena con attoriale e consumata disinvoltura.
Tra quei racconti, la seguente breve ma intensissima storia.
11 settembre 2001: testimonianza
Erano le otto e trenta, e mi trovavo al bar, al ventesimo piano delle Twin Towers, in attesa di entrare in ufficio e iniziare il mio consueto lavoro. //
Improvvisamente, una donna correndo iniziò a gridare: "Aiuto, aiuto!".
Un altro signore, piuttosto robusto, urlava facendo il fiatone: "Qualcuno ha fatto esplodere una bomba!", mentre un terzo smentiva: "No, un aereo è stato dirottato per abbattersi contro questo edificio!". //
Presi dal panico, ci precipitammo verso le scale, dove molto altri già si trovavano.
Si trattava di una fila sterminata di persone che speravano di potersi salvare. //
Molti avevano con sé dei cellulari e telefonavano ai propri cari: "Vedrai, tornerò", oppure "Abbi fiducia in me, e ricorda che non ti dimenticherò mai…" //
Altre voci gridavano: "Voi scendete!", mentre loro salivano, lasciandosi alle spalle le proprie famiglie per salvarne altre: erano i pompieri. //
Guadagnai non senza difficoltà l’uscita.
Da là fuori vidi decine di persone che si gettavano dai piani più alti, e non erano poche quelle che giacevano a terra, purtroppo oramai in fin di vita.
Avrei voluto aiutarle, ma qualcuno me lo impedì. //
Ero ormai distante alcune centinaia di metri quando una delle due torri si sbriciolò.
Una nuvola di polvere avvolse tutto… //
Il racconto è stato letto con assoluta serietà dalla sua stessa autrice, che, mediante delle pause di alcuni secondi, ha segmentato il tema nei vari motivi costituenti (B. Tomaševskij, La costruzione dell’intreccio, in I formalisti russi, Einaudi, 1968, pp. 307-350), secondo quanto indicato sopra dai doppi slash.
Come mai?
Durante la lettura, e soprattutto tra un motivo e l’altro, una chitarra elettrica (la mia), più o meno naturale o "trattata", si è vista assegnare il compito di seguire, sottolineare, commentare, connotare o sviluppare musicalmente il racconto.
Mi sono assunto una bella responsabilità, avendo optato per una rigorosa improvvisazione che recepisse quanto più sensibilmente l’emozione del momento, dandole voce.
È andata bene…
A mente fredda, sono poi riuscito a ricostruire e trascrivere con una certa fedeltà l’idea tramite la quale allora mi è sembrato di dover siglare con tono decisamente elegiaco l’ultima sequenza ("Ero ormai […] polvere avvolse tutto"):
¼ = 80
7.
Di analogie/omologie tra linguaggio narrativo musicale e narrazione verbale in senso stretto certamente ve ne sono, anche se non nel modo un po’ banale e semplicistico in cui vorrebbe far credere, ad esempio, l’autore di un fortunato manuale per la scuola media che, una volta stabilita la "scaletta del racconto", propone di tradurne ciascun elemento verbale, narrativamente o descrittivamente significativo, in termini di sonorità a carattere:
- imitativo ("imitare un suono non vuol dire riprodurlo così com’è, ma elaborare uno schema ad esso somigliante; l’efficacia di questo schema non dipende dal grado di somiglianza, ma dalla evidenza che in esso assumono certi aspetti, fortemente accentuati"),
- simbolico ("suggerire, mediante i suoni, delle realtà che non hanno carattere acustico. Ad esempio, si potrebbe cercare di dare l’idea di una pianura desolata, inaridita dal sole cocente e costellata qua e là di alberi spogli e bruciati, mediante suoni che ci sembrano avere caratteristiche tali da accordarsi con quell’ambiente. Certo, non suoni dolci e rotondi, ma aspri e duri"),
- espressivo ("immaginiamo di voler rappresentare il canto degli uccelli in primavera". Una soluzione interessante, diversa dall’imitazione, potrebbe consistere "nell’inventare dei suoni che abbiano caratteristiche simili di vivacità, dolcezza e così via, anche se si tratta di suoni comunque molto diversi"),
- oppure utilizzando delle "metafore" sonore ("per rappresentare il confuso chiacchiericcio di un gruppo di pettegole, facciamo sentire il chiocciare delle galline, o suoni che ne diano l’idea").
"Giochetto" abbastanza divertente, indubbiamente. Potrà forse contribuire allo sviluppo di qualche specifica abilità che, tuttavia, ben poco deve aver a che fare con quell’autentica espressività o "costruzione di mondi" che qui interessa.
La corrispondenza tra le strutture della storia immaginata o vissuta (comunque verbalmente rappresentabile) e quelle del "racconto musicale" nel suo svolgimento non è sempre così stretta, passiva, pedissequo-pedante-pedestre, biunivoca, automatica e meccanica. Ad un’unica storia verbale potrebbero infatti corrispondere infiniti e assai differenti racconti musicali, la cui lettura risulterà anch’essa inevitabilmente "aperta", dal momento che il concreto referente (2) del discorso sarà comunque andato perduto, irreparabilmente, e alla musica toccherà l’arduo compito di esprimere, della storia, qualcosa che attraverso le parole (salvo, forse, quelle della poesia) non avrebbe potuto essere detto.
Scrive Umberto Eco ne Il nome della rosa: "Di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare", e a questo punto noi potremmo ulteriormente precisare che vi sono diverse modalità narrative (tra cui, ovviamente, quella verbale e quella musicale), a ciascuna delle quali corrisponde un maggiore o minor grado di rarefazione dei contenuti della storia.
Nel racconto musicale questi ultimi sono necessariamente molto rarefatti: il concreto referente, comunque fin dall’inizio negato al fruitore dell’opera, è andato perduto, dissolto, o sbiadirà progressivamente, a mano a mano che l’autonomo "contenuto" della musica verrà al contrario affermandosi, e quasi "emancipandosi" dall’"occasione" che l’aveva inizialmente generato.
Dopo di che se ne possono dare appena degli "interpretanti" (U. Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, 1975, p. 101 e segg.) (3), in ogni caso incapaci di restituire in modo adeguato la concreta e originaria esperienza, oltre che decisamente "superati" in intensità dall’oggetto sonoro-musicale prodotto e fruibile.
I testi "narrativi", in versi o in prosa, precedentemente riportati ai punti 2, 3, 4 e 6 possono essere in tal senso intesi come dei veri e propri "interpretanti" delle musiche a cui fanno riferimento, o con cui di fatto si trovano in una qualche "relazione" significativa, dal momento che un racconto musicale può nascere da un testo, accompagnare un testo, o finire in un testo.
8.
Cesare Segre (Le strutture e il tempo, Einaudi, 1974, p. 14 e segg.) distingue quattro livelli del testo narrativo, procedendo dal concreto verso l’astratto: Discorso, Intreccio, Fabula, Modello. Il discorso è il testo significante, la vera e propria narrazione, nel momento in cui concretamente avviene; l’intreccio è la "costruzione" scelta dall’autore per rappresentare gli avvenimenti; la fabula è un’astrazione escogitata per confrontare l’ordine "naturale" dei fatti con quello "artificiale" dell’opera letteraria, evidenziando i procedimenti usati dallo scrittore per distribuire in costruzione estetica gli eventi; il modello, infine, è la "forma" più generale del racconto in cui risultano evidenti l’ordine e la natura della sue connessioni.
Il lettore ricostruisce mentalmente i nessi temporali e causali, restaurando l’ordine cronologico della fabula, o più ancora del modello, "manomesso" dalla presentazione "arbitraria" dello scrittore, in fase di costruzione dell’intreccio e, successivamente, del discorso.
Ora, come tali precisazioni a carattere narratologico possono essere utili alla nostra analisi dell’oggetto musicale in quanto (e quando) racconto?
Innanzitutto, va ribadito che le narrazioni musicali focalizzano, in uno speciale e mai del tutto traducibile modo, soprattutto storie e paesaggi "interiori": la loro qualità è tanto più elevata quanto meno connotata di "bassa referenzialità".
Loro peculiare contenuto sono per questo degli stati e/o dinamismi della psiche, pur trattandosi di "costruzioni" comunque scatenate dal mondo esterno, che, come direbbe la psicologia narrativa, il musicista "spia" secondo una propria particolare ottica (anche qui ciò che conta non è più la "verità" storicamente vissuta, bensì quella "narrativa" riportata in musica, traducendovi dei contenuti interiori ovviamente gestiti secondo quelle dinamiche tensive e distensive, tipicamente narratologiche, di cui si è detto al punto 3). Scrive Bruner (op. cit., p. 146):
Sigmund Freud probabilmente aveva più a che fare con Derrida o Foucault, se non altro per il fatto di proporre una "realtà psichica" che sembrava azionata più da necessità drammatiche che non da stati del mondo oggettivo.
Si veda anche la ricostruzione che il Proust della Recherche ci offre della propria stessa vita. È nella memoria, secondo lo scrittore, che l’uomo può cogliere le incessanti trasformazioni a cui il tempo (quasi foscoliana "forza operosa" che "affatica le cose di moto in moto") sottopone fatti, persone e sentimenti.
Più interessante ancora ci appare, in questa sede, lo stile lento e digressivo-divagante con cui Proust asseconda il flusso continuo dei ricordi per offrirci una rappresentazione dinamica e soggettiva dei propri vissuti.
I contenuti interiori possono essere rappresentati, nei loro mutui e dialettici rapporti, al livello del Modello e della Fabula, mentre l’esito compositivo e quello esecutivo corrispondono, rispettivamente all’Intreccio e al Discorso.
È tuttavia possibile che i contenuti "profondi" costituenti quel dinamismo interiore che va "raccontato" emergano anche sul piano della concreta manifestazione, cioè dell’esecuzione, ovvero della "performance" (termine che qui va inteso tanto nella sua accezione più consueta e comune, quanto in quella assolutamente specifica della linguistica contemporanea; cfr. Chomsky, Martinet, ecc.), sotto forma di tema. Allora, dato quest’ultimo nella sua ascetica essenzialità e purezza sintattica di base, una particolare "esposizione" del medesimo (si pensi, ad esempio, alle svariate tecniche con cui Jim Hall affronta la questione, da lui considerata di estremo interesse) e ancor più la successiva improvvisazione si profilano come intreccio e discorso, fortemente connotati del/dal soggetto "narrante".
Tuttavia, più spesso (e di norma), il tema sembra corrispondere al livello testuale dell’intreccio, in quanto ragionata "costruzione scelta dall’autore per rappresentare gli avvenimenti" (Segre).
Non è necessario, infine, che vi sia vera e propria improvvisazione, affinché possa parlarsi di strutture "superficiali", cioè di intreccio o discorso: come già si diceva, anche la viva, personale e irripetibile interpretazione di un tema scritto (o fissato in altro modo) è autentica "performance".
9.
Indubbiamente, molto importante è saper comporre delle narrazioni musicali, per quanto non lo sia meno il saperle "leggere":
Sai scrivere? Sì, come pensavo. E leggere? Leggere è la cosa più importante. Lasciatelo dire, non ci sono molti marinai che sanno leggere, ed è un male, perché così firmano qualsiasi contratto. Gli viene detto che devono trasportare tabacco da Charleston, ma nessuno gli ha accennato che prima devono caricare schiavi in Africa.
(B. Larsson, La vera storia del pirata Long John Silver, Iperborea, 1998, p. 62)
Ma intanto, com’è che si impara a costruire dei racconti in musica?
Attraverso un costante ascolto di "testi" canonici, per integrazione-socializzazione-inculturazione, imitando exempla, assumendo una sorta di "grammatica" dall’ambiente stesso, assimilandola per "impregnazione", un po’ come accadde al giovane Pat Metheny che "respirò" attorno a sé le atmosfere del "Kansas City country"?
Scrive A. Moles (Sociodinamica della cultura, Guaraldi, 1971, p. 45):
La cultura proviene dall’Umwelt sociale, parte tramite l’educazione, parte tramite l’impregnazione, cioè tramite questi nuovi venuti del mondo dello spirito: i mezzi di comunicazione di massa i quali costituiscono il legame essenziale tra l’individuo e l’ambiente umano. Ormai ciò che l’individuo incorpora nel suo tessuto mentale gli giunge assai più con l’impregnazione della mente immersa nella sfera dei messaggi che attraverso il processo razionale dell’educazione.
Si veda anche quanto osserva J. E. Berendt (Il libro del jazz, Garzanti, 1973, p.15) sulla particolare musicalità assorbita, anche senza volerlo, semplicemente vivendo tra New Orleans e dintorni:
Tutta la regione del Mississippi era piena delle nuove musiche che nascevano allora, indipendentemente le une dalle altre. "Il fiume e la città furono allo stesso modo importanti per il jazz".
E dunque va fatta un’importante distinzione, quella tra cultura esplicita e implicita.
"Implicita è quella cultura che viene trasmessa a livello non del tutto consapevole […]. Viceversa, cultura esplicita è quella che viene recepita in modo tale che il soggetto sia in grado di descriverla morfologicamente" (Demarchi-Ellena, Dizionario di sociologia, Edizioni Paoline, 1976, p. 386).
J. M. Lotman (Tipologia della cultura, Bompiani, 1975; cfr. anche U. Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, 1975, pp. 194-5) propone di distinguere, in questo stesso senso, tra culture "grammaticalizzate" e "testualizzate". Le prime sono rette da sistemi di regole, le seconde invece appaiono governate da repertori di esempi o modelli di comportamento, nel senso che la società genera direttamente testi che appaiono come macro-unità (di cui possono essere eventualmente inferite le regole) che anzitutto propongono dei modelli da imitare.
10.
Probabilmente, non può esistere una vera e propria "grammatica" che rigorosamente disciplini il tipo di lavoro di cui fin qui si è detto, a meno che non ci si rassegni al rudimentale e "scolastico" approccio suggerito dal manuale di scuola media.
Il "trucco" (per avere di più) è forse proprio in quella reciproca "traducibilità" che in certi casi appare possibile tra narrazione verbale (soprattutto se a dominante "funzione poetica") e racconto musicale in termini di interpretanti, nel senso in cui si è detto e fatto sopra, affiancando ad ogni performance "affabulatoria" di natura musicale qualcosa che pertenga ad un certo "livello" del discorso narrativo verbale. Un racconto musicale può nascere da un testo, accompagnare un testo, o finire in un testo, così come, per simmetria, si potrebbe affermare esattamente la stessa cosa riguardo ad ogni storia fatta di parole.
Alcune mie recenti composizioni-narrazioni (Navigli, Good-bye 2000, Saint John, Waiting for you, A fishing village, Passeggiando nella neve, A Paris, Mi Señor) sono venute al mondo proprio così.
Ed è bello raccontarle a qualcuno …
"Mi sono sempre piaciute le buone storie. È una cosa che si impara davanti all’albero maestro"
(B. Larsson, La vera storia del pirata Long John Silver, Iperborea, 1998, p. 387).
NOTE
(1) Musica scritta per rappresentare, con intendimenti d’arte, oggetti di contenuto extramusicale (poetico, letterario, pittorico, ecc.), sia mediante imitazioni onomatopeiche o dinamiche, sia mediante simboli tematici corrispondenti, sia ricalcando strutturalmente una certa traccia narrativa […] sempre conciliando l’aderenza ai contenuti non musicali con gli schemi propri di una determinata forma musicale (Enciclopedia della Musica, Garzanti, 1974, p. 457).
(2) "Oggetto o situazione individuata da un messaggio o da un segno" (Calabrese-Mucci, Introduzione alla semiotica, Sansoni, 1975, p. 183); "realtà", "stati del mondo" a cui tanto l’emittente quanto il ricevente possono fare riferimento nella comprensione di un dato messaggio.
(3) "Secondo Peirce l’interpretante è ciò che il segno produce in quella ‘quasi-mente’ che è l’interprete […] l’interpretante è UN' ALTRA RAPPRESENTAZIONE RIFERITA ALLO STESSO ‘OGGETTO’. In altre parole, per stabilire il significato di un significante (Peirce parla però di ‘segno’) è necessario nominare il primo significante attraverso un altro significante, che a sua volta ha un altro significante che può essere interpretato da un altro significante e così via. Abbiamo così un processo di SEMIOSI ILLIMITATA" (Eco, op. cit., p. 101). "L’interpretante può assumere forme diverse. […] può essere il significante equivalente (o apparentemente equivalente) in un altro sistema semiotico. Per esempio posso fare corrispondere il disegno di una sedia alla parola |sedia|; […] può essere una associazione emotiva che acquisisce il valore di connotazione fissa (come |cane| per "fedeltà" e viceversa)" (Eco, op. cit., p. 103). " […] l’interpretante potrebbe essere identificato […] con l’intera serie (o sistema) delle denotazioni e connotazioni di una espressione […] può persino essere un discorso complesso […] può essere una risposta comportamentale, un abito determinato dal segno, una disposizione, e molte altre cose" (Eco, op. cit., p. 103).
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