Il libero mercante di storie da rubare
di
Gianni Bergamaschi
1. Una metafora: "Rondini"
Sognai una notte di essermi per caso sintonizzato su una tra le emittenti televisive private della regione in cui vivo. Mentre scorrevano i titoli di coda, un giovane, al centro di un palcoscenico seduto in classicissima postura di fronte ad un pubblico discretamente numeroso, sulle corde di un’Ovation amplificata eseguiva forse un po’ grossolanamente, per quanto nel più assoluto ossequio del pentagramma, una mia composizione di qualche anno fa, Rondini, per me comunque riconoscibile:
1/4 = 90
Non avevo mai suonato quella cosa davanti a chicchessia, e dunque: in che modo quel tizio poteva essere entrato in possesso della relativa partitura?
Il sogno confondeva la realtà…
Da tempo andavo ripetendomi, e con sempre maggior convinzione, che la musica (almeno la "mia") apparteneva a tutti, oppure (immagine eccitante!) che la si sarebbe potuta benissimo rubare.
Ed era esattamente il tipo di "reato" che il giovane del mio sogno aveva commesso.
Perché, allora, la cosa mi infastidiva tanto?
Da una parte mi sorprendeva piacevolmente il fatto di poter ascoltare da qualcuno che non fossi io una storia che conoscevo bene, dall’altra mi contrariava il modo un po’ ruspante, e per i miei gusti fin troppo "scolastico", in cui quel tale andava eseguendo qualcosa che nelle mie intenzioni avrebbe dovuto essere decisamente più volatile, evanescente e leggero.
Ma quella era la sua interpretazione, e a me non restava che accoglierla incondizionatamente.
Certo, avevo bisogno di un po’ di tempo, perché anche il "cuore" potesse mettersi al passo con un’importante conquista che fino a quel momento restava di natura soprattutto mentale.
Oggi, però, niente al mondo potrebbe farmi recedere da quel che, in fatto di musica (ma non solo), è divenuto un granitico radicalismo democratico.
Com’è inebriante questo aver "mollato la presa", un po’ buddhista e un po’ francescano, "liberata" finalmente nel limpido cielo una musica (di cui Rondini può essere forse l’onirica metafora) per tanto tempo tenuta in gabbia!
E che impressione di grande creatività spontaneamente ne ricavo!
Dissolto l’orgoglioso e prepotente Io che a sé soltanto rivendicava ordinati assemblaggi di note per apporvi la propria firma e, tutelandoli, di fatto precludeva loro ogni autentico viaggio, finalmente avverto una sincera gran voglia di fare, di produrre lasciandomi attraversare da un’ispirazione ben diversa dalla sola che fino a qualche tempo fa conoscevo.
La mia carta di presentazione suonerà d’ora in poi più o meno così: "Partiture non firmate e non depositate presso alcun ufficio. Candidamente a disposizione di chiunque".
2. Perché "proteggere" la musica?
Un anno fa troncai ogni mio rapporto con la SIAE, costruzione che in una platonica repubblica ideale non avrebbe alcuna ragione di esistere: c’è perché non siamo buoni, ma per me il gioco non valeva la candela.
- Anche ad eseguire le mie composizioni 20 o 30 volte l’anno
- (in concertini di circa un’oretta e mezzo, per un totale di 12 brani, compresa qualche accattivante, anche se breve, introduzione a carattere seminariale),
- fortuna piuttosto dubbia se non si gode dei servigi di abilissimi e trasparenti manager che giorno e notte si gettino dal tetto per te
- (so bene cosa voglia dire, in termini di tempo e faccia tosta, braccare fino allo stremo amministrazioni pubbliche e gestori di locali),
- durante questi chiari di luna in cui ogni forma di spettacolo che non persegua spudoratamente il solo successo commerciale, da cui il relativo business,
- i corrispondenti introiti non riuscivano a coprire neppure le più banali mie spese.
Però, sebbene impalpabile, la vera ragione per cui un bel giorno richiesi di essere per sempre depennato dall’albo dei compositori italiani ufficialmente iscritti fu tutt’un’altra, e oggi mi piacerebbe un mondo poter riavere indietro, oltre alle svariate decine di mie creazioni chissà in quale polveroso archivio attualmente giacenti, soprattutto le due partiture di 32 battute con cui parecchi anni fa, magicamente ispirato dalla tiepida primavera di una sempre dolce Verona, brillantemente affrontai il mio esame da compositore.
Dovevano racchiudere qualcosa di veramente complicato se, dopo avervi lavorato in istato di assoluta trance per mezza mattinata con in braccio la mia sei corde del momento, non sono più riuscito, poi, a ricordarne il benché minimo passaggio.
Momenti di grazia infinita: non tornano più.
Comunque, dicevo, la mia motivatissima evasione dalla SIAE non dipese dal "fattore danaro", anche se in fondo, pure sotto quest’aspetto, non mi è mai piaciuto recitare la parte del fesso.
Le mie dimissioni furono determinate fondamentalmente dall’assoluta disparità e reciproca estraneità dei "piani" oggettivamente corrispondenti, da una parte, alla musica di facilissimo consumo, dall’altra, a quella che spontaneamente veniva a crearsi nella mia testa e sulle mie dita, certamente non easy benché popolare, basata su una ricerca per definizione indipendente, per principio gratuita, viva e non stereotipica, orientata verso fini indubbiamente alieni dalla facile commerciabilità della musica stessa, oltre che dal plagio delle individualità utenti, ahimè oggi comunque e regolarmente vessate da un’offerta di massa nel complesso capacissima di rasentare i più bassi livelli.
Così finalmente conquistai quella speciale condizione che, nel modo più hippy possibile, mi consente oggi di inventare e suonare tutto quel che mi va, secondo come "mi ditta dentro".
E non scrivo più nulla, se non per fermare rapidissimamente un’idea su cui in seguito potrei aver voglia di tornare con maggior impegno.
Non "dimoro" più in alcun brano che io stesso nel tempo possa aver creato.
Dimentico facilmente molte delle mie cose, ma ciò non mi rende affatto inquieto.
Sono consapevole del fatto che la musica e i suoni che la costituiscono appartengano a tutti, e le canzoni vanno e vengono, sull’onda di una creatività che dev’essere lasciata libera di errare dove più gli piace.
Non provo oramai il minimo cruccio al pensiero che qualcuno possa appropriarsi di una "mia" composizione. Dovrebbe semmai piazzarmisi davanti con un registratore e poi a casa, sbobinando il tutto, trascrivere accuratamente ogni nota sui righi d’un pentagramma. Ma quale onore sarebbe per me!
Da un’intera vita non attendevo che questo: poter riascoltare qualcosa di "mio" interpretato da altri come fosse cosa "loro" (difatti lo è) …
E poi: chi potrebbe voler rubare delle musiche ad un "jazzista" in tempi come questi, tanto tristemente tesi alla degustazione di frutti musicali acerbi e grossolani oltre ogni dire?
Chiunque avesse la voglia di farlo apparterrebbe ipso facto al mio stesso club (come se amassimo entrambi una medesima "donna", e dunque qualcosa di viscerale ci rendesse affini, profondamente affini: "fratelli"), e allora ben venga: sarò felicissimo di riabbracciare un caro amico che temevo perduto. Gli offrirò in dono tutte le "mie" idee.
Peraltro, la musica che dal ‘92 sono andato componendo (e firmando) non ha fin qui assicurato ricchezze a nessuno, e nessuno mi è sembrato mai volersene avidamente o scorrettamente appropriare. Mi hanno talvolta chiesto di potersene servire, ma sempre con infinito garbo, e persino riguardo alla struggente mia Sunny ho autorizzato ogni destino.
D’altronde: da chi o da che cosa avrei dovuto tutelarla?
Infine, vorrei accennare ad un ultimo aspetto, per completare il quadro relativo a questo senso di grande libertà che finalmente ho il privilegio di sperimentare.
Per illustrarlo con sufficiente adeguatezza basterà che io infili cronologicamente (e dunque, in un certo senso, narrativamente) alcuni passaggi tratti da una vivace, significativa e in ogni caso assai cortese relazione e-mail intercorsa, nell’ottobre del 2003, tra me e un corrispondente elettronico discretamente autorevole, le cui ragioni tuttora comprendo e incondizionatamente rispetto.
Dal contenuto dei miei interventi mi pare sia in gran parte possibile intuire il senso dei suoi:
«[…] appartengo a quella rarissima genia di jazzisti elettroaucustici che si muovono nel senso di una propria, originale e spesso solitaria ricerca. Tuttavia, mi piacerebbe poter offrire comunque un mio personale contributo alla pregevole vostra iniziativa [discografica] anche perché di cose da "raccontare" recentemente ne ho davvero tante. […]. Il secondo brano, suonato in totale solitudine, è una mia recente composizione, Le temps jadis […]. L’ho composta durante le mie ultime vacanze estive, trascorse presso un toccante borgo di pescatori, in Sicilia, e poi me la sono suonata quasi tutte le sere: irresistibile, di fronte ad un Mediterraneo ineffabile e struggente.»
«[…] da qualche mese non sono più iscritto alla SIAE. Mi sono dimesso per una serie di ragioni del tutto personali, e non me ne importa niente dei diritti d’autore.»
«[…]. Non capisco bene il passaggio della tua lettera che recita "includendo un brano anziché due […] non ti sarebbe richiesto di acquisire le venti copie del CD ma soltanto 10".
"Acquisire" in che senso? Dovrei acquistarle o mi spetterebbero quale, diciamo così, proporzionale "compenso" al mio lavoro?»
«[…] quando nella precedente mail ti chiedevo di chiarirmi il passaggio relativo al fatto che non mi "sarebbe richiesto di acquisire le venti copie del CD ma soltanto 10", intendevo anche dire, per quasi naturale implicazione, che non ho intenzione di acquistare nulla, e che ciò mi sembra giusto, essendo io ad offrire gratuitamente a terzi della musica […] ragion per cui non mi sembra logico dover pagare alcunché.»
«[…] di nuovo la solita trovata che da innumerevoli annate molti e molti altri ancora mi propongono sempre in questi esatti termini. […]. Non te la prendere: quella che mi preme è unicamente una questione di principio e dignità, qualunque cosa possa valere la "mia" musica, anche se sono assolutamente consapevole che la "mia" (e specialmente tutto il discorso che c’è dietro) valga assai più di tanta robaccia che si sente in giro, soprattutto quella blasonata, sponsorizzata e potentemente lanciata sopra la testa della gente al mercato...
Con una certa punta di malinconia devo dunque ammettere (e contestualmente comunicarti), purtroppo, che non intendo partecipare alla cosa, ma tu puoi benissimo tenere il CD che ti ho fatto avere. Sono lieto che ti sia piaciuto e sarei ancor più contento se potrai andartelo ad ascoltare ogni volta che ne avrai voglia. Altrimenti, regalalo ad un amico.
La "mia" è musica di tutti, libera, gratuita, da percepire nell’aria, da portare con sé, nel cuore... da rubare; ma è un discorso terribile, un po’ difficile da cacciare nella testa della gente, a quanto pare.»
3. L’ignoto interprete di ariette anonime
… e così, quanto vado scrivendo in musica non mi appartiene.
Vi giocano sonorità e ritmi, canti e canzoni, armonie e temi, opere e operette, motivi e motivetti che, come tutti, anch’io ho spesso inconsapevolmente assorbito e vado respirando nell’aria da che sono nato.
Neppure una di tutte queste cose è mia.
Anche Pat:
"Ho scoperto solamente in questi ultimi anni quanta influenza abbia avuto su di me la musica country. Non è che io l’abbia suonata moltissimo, ma quando ero ragazzo nel mio paese era dappertutto, la potevi sentire nell’aria" [1987] (in L. Viva, Pat Metheny, p. 51).
Inoltre, diverso, inconfondibile, unico e irripetibile sarà ogni volta il vario assemblaggio di tutto quel materiale, e soprattutto l’esecuzione (specie se jazzisticamente intesa) del medesimo.
Quel che posso annotare su un pentagramma allora non è mio, e neppure potrebbe "corrispondermi" più di tanto, dal momento che ogni nuova mia "lettura" di una certa mia "scrittura" necessariamente sarà diversa a seconda dei momenti e circostanze in cui la "eseguirò".
Mi appartengono invece (nel senso di: "coincidono con me", in quel certo luogo/istante) l’esecuzione, la performance, la viva interpretazione, ma per tutte queste cose non c’è problema: non c’è scrittura (non può esserci, grazie a Dio): non c’è bisogno della SIAE.
La realtà, quella vera, si tutela da sé, poiché non può essere replicata, in alcun caso, nello stesso identico modo, per quanto l’esecutore voglia tornare ad essere, almeno una volta, lo stesso. Non gli riuscirà…
Per dirla semiologicamente, più che la fabula ora mi interessa l’intreccio, e ancora più l’epifania, la concreta manifestazione. È lì che il "vero Io" si lascia a tratti sorprendere ("Il varco è qui?"), sia pure tra mille "mascheramenti", e il migliore è quello che si mostra così com’è, fresco, senza censure o paure (cfr., su quest’aspetto, il mio "Narrative Guitar" VS Tecno-automatismi).
Dunque… che si rubino tutte le fabulae, i canovacci, i palinsesti collettivi a portata di chiunque mani abbia.
Poi, e qui starà il bello, occorrerà lavorarci sopra.
4. Non scrivere più…
Durante questi ultimi tempi, ho messo insieme (nel senso che mi son venute sulle dita, non sul pentagramma) alcune composizioni che mi sembrano piuttosto interessanti: Vagues (pastello in 6/8), Le temps jadis (tenerissima ballad), Mc Duff (concitato fast 4/4 ispirato a Il Cerchio Celtico di B. Larsson), You (rinascimentale e malinconia ballad), The return of the Hesperus (afro che sa di sartie e salsedine), Una storia da rubare (che presento qui sotto, su pentagramma, per agevolarne ogni eventuale "furto"), Catullo (rievocazione musicale di un’indimenticabile gita sul Garda con i miei alunni).
Ma ora, da "cane sciolto", come potrò suonarle in giro?
Semplicemente: avrò con me la mia chitarra e le suonerò.
Non scrivere più musica, non fermarla, non paralizzarla, non ucciderla registrandola, im-mort-al-andola ("in / morta / ala"!).
Semplicemente lasciarla fluire, perché si evolva da sé, liberamente, nel tempo e nello spazio.
È questa l’ineffabile essenza del jazz?
5. Nello spazio: "Clochard"
Ho sempre vagheggiato con una punta di invidia ogni categoria di musicisti apolidi, nomadi, girovaghi.
Scrissi anni fa un brano intitolato Clochard, e poi un altro ancora, A Paris, nel quale con struggente pena narravo la dura ma libera esistenza d’un "barbone".
Mi sarebbe piaciuto suonare per strada, attraversando l’Europa, soprattutto quella del nord (?), per offrire a chiunque, gratuitamente, le mie cose.
Musica di tutti.
Un eccellente contrabbassista con cui suono sempre molto volentieri mi raccontò un giorno la propria esperienza al riguardo. Aveva girato l’intera Francia assieme ad un suo amico chitarrista: affascinante turismo e stile di vita unico…
6. Una storia da rubare
Come potrei mai banalmente "dedicare" a qualcuno una certa musica, per quanto deliziosa, sapendo che non si tratta propriamente di una mia creazione, bensì di un puro alitare di note captate nell’aria, composizione collettiva, apporto di ogni musicista (qualcuno lo è senza neppure saperlo) che mi ha preceduto o mi è contemporaneo, "codice comune", emozione e contenuto profondamente vissuti e largamente semantizzati?
Come potrei mai pretendere di depositare a mio nome, presso una qualsiasi istituzione volta a "tutelarla", una simile realtà?
Come potrei dichiararmi indiscutibilmente certo che qualcun altro, in altro tempo o da qualche altra parte di questo mondo o in questo esatto istante non abbia già scritto o non stia scrivendo, bellamente infischiandosene della mia esistenza (eventualità altamente probabile), la stessa cosa che io ho scritto o sto scrivendo?
Insomma: queste 18 semplici battute mi appartengono davvero o la mia mente e le mie dita non ne sono che il puro strumento epifanico?
Ma allo stesso modo in cui qualche anno fa, nel suo Kitchen Blues, Gigi Cifarelli dedicava al grande Wes un’emotiva per quanto sofisticata Letter, mi piacerebbe tanto, ora, poter inviare una commossa e nostalgica mail fino ai Campi Elisi, a mio padre, marinaio; vorrei dirgli che per me dentro questa "musica da rubare" c’è parecchio di lui. Ballerino lieve quanto una brezza, amava alla follia ogni musica orchestralmente jazzata, se resa eterna e inconfondibile da quel modo unico e felpato in cui un Freddie Green tutto impreziosiva con il suo magico tocco. Mio padre neppure lo conosceva, ma ne assaporava estasiato l’ineffabile pennata.
Per il resto, autorizzerei chiunque, fin dal presente attimo, a disporre del frammento che segue come più gli piacerà.
Avanzerei tuttavia la più naturale delle ricette: ripetere due volte A; proseguire con una B piacevolmente ritmica (ne propongo una), replicata ad libitum, possibilmente in fingerstyle; riprendere una volta A (per un totale di almeno 70 battute e oltre 2 minuti di musica).
A questo punto, chissà cosa darei per potermi godere le svariate possibili interpretazioni di chiunque...
Io stesso, per quanto ad ogni nuova "esecuzione" abbia costantemente davanti quest’elementare "partitura", non riesco a starvi rigorosamente dentro: ne modifico irresistibilmente note, frasi, pronunce, valori, tratti espressivi e via dicendo.
È così che l’idea va misteriosamente evolvendosi nella misura in cui io stesso nel tempo mi trasformo, e quasi vorrei ogni volta rimettere completamente mano alla notazione per consegnare all’eventuale lettore del presente scritto una sempre più fedele traduzione dell’ultimo e "definitivo" mio stato interiore.
Ma so bene che questo non sarà mai possibile. E neppure avrebbe senso.
Un pentagramma non pretende di fornire che indicazioni generiche e precarie, per quanto compiutamente articolate e corrette: ciascuno, poi, concederà a quegli indecisi graffiti la vita che vorrà.
Una storia da rubare
(A: tema)
1/4 = 120, jazz feelin’
Una storia da rubare
(armonie di A)
1/4 = 120, jazz feelin’
Una storia da rubare
(B: un’idea ritmica)
1/4 = 120, jazz feelin’
7. Un didattico "riciclaggio"
Circa il modo in cui una provocazione del genere potrebbe essere recepita e sfruttata, una volta "rubata", basterà illustrare brevemente, a mo’ d’esempio, l’utilizzo che ne ho fatto con i miei alunni di prima media.
Innanzitutto, la "cantabilità" del tema (A) sopra riportato risulterebbe immediatamente evidente a chiunque.
Sembra quasi di poter avvertire, sotto le note, delle "parole" (cfr. Per un’ "autodidattica" della composizione e dell’improvvisazione nel jazz, 11).
Svariati fattori indubbiamente concorrono a determinare un tale effetto di "parlabilità":
a) la decisa e spontanea congruenza del valore delle note (sia lunghe che brevi) con la più naturale scansione metrica e sillabica della nostra (italiana) comunicazione verbale;
b) il discreto numero di silenzi (pause), ben intercalati, tra una "frase" e l’altra;
c) le numerose note lunghe (quasi "riflessive") all’inizio o al termine di ogni frase;
d) l’andamento "epiciclico" della linea melodica, nel suo insieme e al livello di ciascuna cellula (cfr. "Narrative Guitar" VS Tecno-automatismi, 8. 5);
e) il buon contenimento di ogni escursione in altezza. Anche qui, « cantus non facit saltus. I bei temi (solitamente "popolari", ma non sempre e non necessariamente) […] di rado prospettano salti di esagerata difficoltà o imbarazzante virtuosismo. Si muovono invece sondando funzionalmente le opportunità offerte dagli spazi più prossimi, come farebbe ogni buon "mercante di sogni" […] che "esponga", con l’imperturbabile e pacata disinvoltura del grande incantatore, le proprie meraviglie. Ciò consente a chiunque di poterli fischiettare o cantare senza per questo doverne conoscere a menadito la partitura » ("Narrative Guitar" VS Tecno-automatismi, "Cantabilità di un racconto", 8.3);
f) la facile avvertibilità di quelli che nella lingua parlata sono gli accenti delle parole (sia grafici che tonici), fattore assolutamente interessante nel momento in cui si tratterà di produrre un testo da sovrapporre alla linea melodica.
Quanto all’ultimo aspetto (f), ho proposto alla mia classe il seguente palinsesto, su cui ognuno, tenendo conto del numero di sillabe (pronunciate o mute), della loro distribuzione, delle sinalefi, degli accenti (obbligatori o facoltativi), della scansione dell’intero testo in versi e strofe e via dicendo ha poi calato una propria "lirica" (stavamo compiendo i primi passi di un’unità didattica sulla poesia).
I triangolini corrispondono agli accenti con evidenza "richiesti" dal tema (A) di Una storia da rubare:
Al termine di una prima fase (volutamente propedeutica e rudimentale) è uscito fuori qualcosa di cui forse non è il caso di vergognarsi troppo (ne sono autori dei semplici ragazzini di 11 anni!).
Appena un esempio, tanto per chiudere "in allegria":
Il mio cane
resta lì
nella sua cuccia,
non vuol più giocar
è troppo stanco
vuol morir
è così triste
che non vuol
neanche mangiare;
io non so più
che cosa far
sono tre giorni
che non dormo,
pensando a lui.