Gianni
Bergamaschi
Per un diverso "punto d’ascolto" sulla musica
(chitarristica... ma non solo)
A noi cultori della moderna sei corde (leggera, country, pop, rock, jazz e via dicendo), soprattutto se elettrica, accade spesso di risultare, alla fine, piuttosto dei "conclusi" specialisti del solo nostro proprio strumento (e quindi, soltanto dei "chitarristi") che dei musicisti nel senso più ampio, ricco e completo del termine (introversivo ed estroversivo; cfr. il mio "Narrative Guitar" VS Tecno-automatismi).
Un’osservazione simile (anche se non del tutto congruente con la nostra, che vuole essere più ampia e culturale) venne qualche tempo fa avanzata da Christian Escoudé (cfr. "Narrative Guitar" ecc., 9.21), il quale definiva Wes Montgomery piuttosto "un grande chitarrista di jazz che non […] un grande musicista di jazz".
Di fatto, la nostra visione della musica appare troppo spesso settoriale, e in tutto ciò che ascoltiamo tendiamo a sovrastimare determinate componenti a scapito di altre che tuttavia, e con ogni buon diritto, restano lì a rivendicare imperterrite un proprio fondamentale ruolo nella generale architettura di ogni manufatto che possa realmente dirsi "musicale" (ma cfr., sempre in "Narrative Guitar" ecc., 1. Premessa, il mio atteggiamento decisamente critico nei riguardi di una visione "soltanto musicale" della musica).
Appena qualche esempio per assodare il fatto che, fra le diverse specie di strumentisti, noi chitarristi costituiamo indubbiamente (e di fatto veniamo considerati) una "fauna" per molti versi pittoresca:
1) non possiamo vantare un’eccelsa dimestichezza con la lettura a prima vista di una partitura musicale (molti di noi neppure sono in grado di riconoscere delle note sul pentagramma);
2) poltrendo sul fatto che la chitarra è di fatto uno strumento tanto armonico quanto melodico e ritmico, di norma non sappiamo suonarne altri (piano, batteria, fiati, ecc.), e questo fatto emerge con assoluta evidenza;
3) la nostra tecnica risulta sovente "nostrana", casereccia, approssimativa, soggettiva ed empirica (aspetto che tuttavia non definirei completamente disdicevole; anzi, forse il nostro fascino risiede proprio in questo status tendenzialmente anarchico, gipsy e "sfumato" della nostra "metodologia"), quando non addirittura inefficace, a fronte delle ben più rigorose ed esplicite codificazioni proprie alla maggior parte degli altri strumenti;
4) non possediamo di norma un’organica visione teorica circa l’armonizzazione, la costituzione degli accordi e la loro modulazione, per cui spesso indichiamo persino i gradi delle note costituenti azzardando dizioni a dir poco improprie o peccando di inesattezze davvero imbarazzanti;
5) nell’armonizzare una melodia non sempre siamo in grado di tenere simultaneamente e sistematicamente presenti i tre fondamentali registri (acuto, medio, grave) al livello dei quali le mutazioni debbono pur avvenire, per cui di volta in volta posizioniamo i nostri accordi senza giostrare con naturalezza e competenza il movimento dei bassi, dei "cantini" e delle note intermedie (di "fusione" e "modalità"): ci piacciono le grossolane "fondamentali" al registro grave, mentre ce ne strafottiamo dei relativi disdicevoli salti, con un minimo di scienza evitabilissimi a tutto vantaggio della qualità musicale;
6) la nostra diteggiatura appare spesso "selvaggia" ai chitarristi accademici. Talvolta neppure sappiamo gestire funzionalmente la logica delle quattro dita della mano sinistra sulle sei corde e su tutti i capotasti (a tale ultimo riguardo, dimostriamo sovente una monotona settorialità, e svariate regioni del nostro strumento restano per noi la più oscura delle notti: "hic sunt leones");
7) nell’"impugnare" gli "accordi" ci abbandoniamo con naturalezza ad un inquietante automatismo e dimostriamo di saper ragionare per sole sigle mnemoniche (e così, ad esempio, il C7 non può essere "preso" che in quei cinque o, al massimo, sei modi che conosciamo, tra il primo e il dodicesimo capotasto; nulla di più falso…);
8) nell’arrangiare orchestralmente una determinata composizione, o nello "scrivere" (si fa per dire) le parti degli altri strumenti, raramente ci riesce di gestire con padronanza vaste e significative architetture narrativo-descrittive: le nostre idee musicali appaiono spesso un po’ "corte". C’è sempre qualcosa che non va: sproporzioni, ripetizioni, prolissità, egocentrismi, dialettiche poco azzeccate fra blocchi, scarsa sensibilità/attenzione alle dinamiche, tecnicismi gratuiti, impasti timbrici banali o poco felici, mancata conoscenza della semantica e delle possibilità/difficoltà tecniche squisitamente proprie a ciascuno strumento, modulazioni poco ortodosse o goffe, stacchi innaturali, ecc.
Insomma, queste ed altre "caratteristiche" possono fare di noi chitarristi "moderni" degli incantevoli romantici, un po’ scapigliati e clochard, eterni adolescenti e bohémien, forse, ma comunque e sempre inguaribilmente bizzarri.
Tutto ciò non concerne soltanto il nostro modo di suonare bensì anche e soprattutto, come sopra accennavo, la maniera stessa in cui ascoltiamo la musica (soprattutto se chitarristica), il globale atteggiamento con cui la analizziamo e valutiamo, sempre dannatamente riduttivo e introversivo (per il significato di tale espressione, cfr. il mio "Narrative Guitar" ecc., 8.3, 8.11, 8.12, 8.13, 8.14, 8.15, 8.16, 9.7, 9.10, 9.12, 9.21).
Forse soltanto un approccio di tipo narrativo potrebbe ricondurci ad una visione più ampiamente musicale, non introversiva bensì riccamente "culturale", della musica, e suggerirci "vie" meno banali o macchinalmente battute nel senso di una qualche soluzione ai non pochi problemi sopra individuati.
Quale propedeutico esercizio di coscientizzazione, suggerirei senz’altro l’attento ascolto di un paio di brani (P. Metheny, Oceania, in Quartet; M. Stern, What I meant to say, in Is what it is) in cui vengono proposti degli assolo talmente puliti e disadorni da apparir lampante che non è affatto in gioco la semplice e miope tecnica "chitarristica", bensì la Grande Musica…